EDITORIALE : IL LINGUAGGIO DELLA NATURA


EDITORIALE : IL LINGUAGGIO DELLA NATURA

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In un recente articolo apparso su Repubblica P.G. Oddifredi si domandava se la matematica sia il linguaggio della natura o se sia l'uomo ad avergliene imposto uno fittizio. In questa sede desidero riformulare il quesito, spostando anzi i termini, per appurare se la matematica è davvero strumento di conoscenza perfetta o non è invece inganno,peggio, un artificio della mente con cui rimuovere l'orrore del divenire. A sostegno della rispettabilità della matematica, va intanto detto che nulla esclude, riguardo il divenire inteso come caos, che ci appaia tale perchè non ne conosciamo i meccanismi espressivi. Ma è pur sacrosanto metterne in dubbio la sacralità quando scopriamo di non possederne lo straccio di un modello che illustri l'atto fondativo dell'universo, vale a dire l'arcifamoso Big Bang...

Per chi ancora lo ignori il Big Bang è una singolarità, un punto dello spazio tempo in cui inscriviamo tutta la nostra ignoranza: la sacra matematica non ci arriva. Ora l'incapacità a dimostrare l'istante zero non è oba da poco, equivale a sapere, supponiamo, tutto di una partita di calcio e non potere tuttavia riferire chi abbia dato il calcio di inizio. Come se - ragionando per assurdo- in quel momento fosse andato in tilt, e e senza spiegazione, il sistema mediatico planetario. Ma riflettiamo: se accadesse cosa penseremmo di quel sistema? lo riterremmo adeguato? e sarebbe una valida giustificazione la sua comprovata capacità di informarci di tutto in ogni istante se poi,ad esempio, il Segretario dell'ONU va in mondovisione per avvertire di uno tsumani planetario e in quel momento il sistema di trasmissione va black out?
Proseguendo nell'analogia possiamo affermare che la matematica si rivela strumento impreciso proprio perchè impossibilitato a spiegare la nascita dell'universo,il big bang, e perciò: può definirsi linguaggio della Natura? volendo anche ammetterlo sorgono altre osservazioni: intanto che un simile linguaggio, pur efficace nella vita di tutti i giorni, non lo conosciamo a fondo. E poi che ci siamo illusi di essere bravi interpreti ma giunti a un punto chiave abbiamo visto che parliamo lingue diverse.
E' tempo allora di scoprire le carte e porre il quesito che mi sta a cuore : è possibile dimostrare Dio non con la fede107 ma per via matematica? la domanda non è affatto bizzarra: ci sta provando il maggiore fisico vivente, Hawking, e non escludo che l'ostacolo principale sia l'irreperibilità di una logica adeguata. Lo stesso Einstein, del resto, si inventò la matematica dei tensori per formulare la sua cosmologia. E altrettanto fece Newton col calcolo differenziale.

Riepilogando, il muro invalicabile dell'attuale fisica è il seguente: c'è stato un grande scoppio all'inizio del tempo ( provato sperimentalmente dalla cosiddetta radiazione fossile), ma questo non dimostra niente, anzi pone un duplice problema di natura teleologica.
Il primo: l'universo è nato da una deflagrazione ma non si espanderà in eterno, secondo alcuni fisici lo farà sino a un limite, dopo di che collasserà in se stesso (big crunch), tornando a un punto iniziale da cui riesplodere. Insomma un ciclo eterno di implosioni e scoppi.
Il secondo: l'universo si espande all'infinito.

Entrambe le ipotesi ospitano la medesima lacuna, ossia: Chi avrebbe azionato il susseguirsi di big bang e crunch o, in alternativa, l'irriproducibile scoppio iniziale? ? e poi: a che scopo, se non il narcisistico compiacimento per un giocattolo ben congegnato?
Lo stato dell'arte non consente risposte, per il motivo che di quel punto iniziale e di quanto l'ha preceduto ignoriamo tutto, a causa di un codice inadeguato. Meglio dunque, per i nostri scopi, affidarci a un concetto sottile ma non di meno scientifico quale l'entropia. Che ugualmente condurrà a poco ma ha il pregio di descrivere, sia pure in qualità, non in sostanza, gli accadimenti primordiali.
Dunque l'entropia è una funzione di stato il che ne impèlica la non misurabilità in assoluto - insomma necessita di uno stato iniziale in cui assegnarle un certo valore - e tuttavia ha un pregio cruciale: misura il disordine di un sistema. Più esso è caotico maggiore è l'entropia.
Nei calcoli termodinamici si prende per riferimento il suo valore alla temperatura di zero gradi centigradi e alla pressione di una atmosfera, ma nulla esclude, parlando di universo, che tale stato venga fatto coincidere con l'istante T = 0, l'attimo del big bang. Di quell'istante tutto possiamo ignorare se non che abbia posseduto entropia zero, mancandogli per definizione un riferimento anteriore.E perciò, per la definizione di antropia, al Big Bang l'universo era ordine infinito. Questo lo possiamo dire, e mentre lo affermiamo con certezza un po' ci passa quella inquietante angoscia da istante 0. Il quale, ribadisco, è un punto singolare.
Così come i credenti dicono della Resurrezione.


Carlo Capone


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EDITORIALE : NAPOLI SIAMO NOI


EDITORIALE : NAPOLI SIAMO NOI

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Giorgio Bocca - Napoli siamo noiGiorgio Bocca è il degno esponente di quella tradizione di civil servant piemontesi quale Caselli, Dalla Chiesa, Don Ciotti e altri. Ma tant’è, è un isolato. Di lui segnalo, più dell’ultimo, non ancora acquistato, L’Inferno, del 93, un’odissea giornalistica - ma anche sentimentale, perchè Bocca da bravo piemontese al suo Paese ci tiene, lo disprezzi o meno - nelle 4 regioni sotto il tallone mafioso. Quel libro è il padre elettivo del presente. Quando lo lessi, e lo rilessi, da un lato ne riemersi intorpidito, dall’altro non potetti che assentire. Bocca appartiene a quella razza pregiata che da un frammento ricava l’universo, grazie a straordinario istinto percettivo. Chi non lo comprende - ed è facile, inutile girarci - rileva in queste indagini del pressapochismo. In realtà il suo scandaglio è frutto di una scuola in estinzione, che impone al cronachista non di trarre notizie da un monitor ma di uscire in strada e domandare. Da qui gli equivoci sul particolarissimo interpretare. Quanto ai refusi, che per castronaggine fanno perdere di vista la sostanza di un dramma, vanno evidenziati. Specie al cospetto di un osservatore attento come lui...

Una cosa però la voglio dire, in merito a quest’ultima sua fatica, e riguarda il titolo: Napoli siamo noi. Che ovviamente non va inteso come estensione agli italiani (certi chierichetti!) di quei luoghi comuni quali delinquente, mafioso, mandolinaro, furbastro, ladruncolo, incivile e fancazzista (Napoli insomma come propulsore del Peggio) che ancora infestano certe fantasie antimeridionali. No, e meno male, equivarrebbe al delirio hitleriano sugli stenti del dopo Weimar da imputare agli ebrei. Il titolo sta a dimostrare che quella magica e sciagurata città (meta a Natale di 70000 impavidi visitatori, quorum ego, tutti muniti di casco da safari e schioppo) è lo specchio ingranditore di ciò che altrove occhieggia, è tra le pieghe. Questo va specificato. Come altrettanto mi induce a una riflessione il frammento di mia vita napoletana nella settimana di Natale.
Intanto una premessa di carattere personale: me ne scuso, ma è funzionale al resto della storia. Sono nato a Napoli e vivo in Piemonte da parecchio, però a Napoli ci tengo, una volta all’anno devo andarci, come a rivivere un amore. E devo aggiungere, per paradosso di sorte, che giusto nel momento di partire riscopro i segni di un nuovo appartenere. Diversi amici autoctoni, sia con lo sguardo che a parole, difatti danno a intendere di restarci male, per quella che ritengono una fuga. “Ma come, te ne vai?”, capisco da quegli occhi, o assaggio come retrogusto emotivo di formalismi tipo ‘fai buon viaggio, salutaci la tua Napoli’. Il che non può che farmi legittimo piacere.
Si alloggiava alle Rampe Brancaccio, a due passi da quella vena di edifici umbertini e liberty, preziosissimi, che è Via Dei Mille, di un gioiello quale Piazza dei Martiri, e di una Via Calabritto che nulla ha da invidiare a Montenapoli in Milano: per maestà di costruzioni e lucentezze. Ora un posto del genere, non dissimile al centro di una qualunque capitale, in un tesoro di arte, storia, spazi pedonali cinti da palazzi, le cui linee brillano a prima sera per i filari di luci su archi e costoni, in questo stagno di delizie - non nell’inferno dei martiri di Scampia, dunque - trovo grottesco che si abbia paura. Non mi riferisco alle vie o piazze citati ma appunto a quelle Rampe Brancaccio, un tempo indice di appartatezza e vivere gentile, ad esse contigue. I palazzi, splendidi - taluni culminati con torrette a merli, altri dai terrazzi piantumati a cotto - e la stradina a tornanti sono quelli di sempre, come identica è la vicinanza con piazzetta Mondragone e via Nicotera. Dove fermenta il marcio. Via Nicotera e Piazzetta Mondragone sono il limite di rispetto, un Acheronte dove termina la cosiddetta città bene e c’è l’inferno. Una ripida discesa le collega ai famigerati Quartieri Spagnoli, regno del Male, assoluto, da cui emergono subumani brunofacciuti, gli occhi lumeggianti come lupi, in groppa a motorini il cui scoppiettare è insieme monito e provocazione. La gente delle Rampe li teme, paventa nell’uscire di esserne depredata. Quando è giorno, o al tramonto, lasciando perdere la notte, non ci cammina nessuno, per le Rampe. Ogni momento - ogni!- un’ora vale l’altra per essere scippati: di tutto, a cominciare dalla borsa, il portafogli, per non parlare di una bijoutterie qualunque o del più infimo laccetto. Una amica mi riferiva che quando visita i parenti su alle Rampe copre la borsa col cappotto ( e di estate? a primavera? ) e se ha un anello, l’orologetto, insomma quanto di smerciabile si permetta, che cosa fa? ha predisposto una bustina in stoffa in cui gettare quegli oggetti, che dopo comiche contorsioni fissa con una spilla al reggiseno. E tutto questo per andare da parenti. Alle Rampe Brancaccio.
L’impatto di questi racconti e dell’effettiva sperdutezza del posto sul mio breve soggiorno è presto detto. Io me ne sono sbattuto, un antico amore impone dazi, pur rabbrividendo il pomeriggio di Vigilia quando, dopo il tornantino, una motoretta mi ha scorreggiato indietro, e perciò ho guardato, e visto due occhi diritti dentro i miei, prima che il cervello malato che li aziona decidesse che non ero carne di scelta e sterzasse. Me ne sono fregato, ma mia moglie, che a Napoli non vuole più tornare, foss’anche mezza volta l’anno - della figlia piemontese taccio per intuibili ragioni - mia moglie un giorno l’ho sorpresa trafficare a un sacchetto. Era di plastica, del GS, e vi infilava la borsa. “Così pensano che c’ho dentro la spesa”, mi ha detto nell’uscire.
Stanno mangiandosi tutto, tutta la città, sotto gli occhi allibiti della buona gente. A via dei Mille come a Scampia, ai Cristallini, Materdei, dentro i Granili, al Conte di Acerra, a Mezzocannone, in Fuorigrotta, Antignano, Bagnoli, da Chiaia a Barra, il Chiatamone, San Ferdinando, i Gradoni, all’Ascenzione. Tutto, ogni carne è buona.
Alle armi, napoletani, alle armi della ragione, come nel 99, nel 48, nel 43. Che non sono un terno al lotto.



Carlo Capone


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EDITORIALE : Il caffè e la scrittura


EDITORIALE : Il caffè e la scrittura

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tazzina di caffèChe scrivere sia un piacere lo trovo discutibile. Scrivere non è un piacere, è un'ossessione, originata da un principio che definiamo esso sì di piacere. E' cioè la trasposizione, mediata dall'Io, di un'urgenza libidica in cerca di oggetti. Il piacere, allora, consiste nella buona resa di questa mediazione, in genere testimoniata dall'affiorare di un senso di pienezza. Accade, ad esempio, quando giudichiamo che un dialogo abbia messo in luce un aspetto cruciale di un personaggio (magari grazie a una semplice battuta mai affiorata finora). Oppure se stimiamo, ma è corretto dire 'sentiamo', che la descrizione di un ambiente o di un paesaggio contribuiscano a una certa efficacia narrativa, non siano insomma il pretesto per autopiacersi. O ancora, nel caso in cui l'apparizione di una nuova figura illustri meglio il personaggio principale. A questo proposito espongo un esempio...

A me autore è chiaro che Tramaglino debba essere un bravo giovanotto, timorato di dio e della legge, e in fin dei conti capace di difendersi dalle insidie dei tempi, tant'è che lo munisco alla cintura di un coltello dal manico intagliato. D'accordo, ma secondo i piani Tramaglino deve anche essere un po' pirla, nel senso affettuoso del termine, insomma credulone (è una necessità imposta dai fini ultimi per cui scrivo il romanzo, al di là delle contingenze di racconto). E' tutto pronto. Gli aspetti principali del carattere li ho delineati (consulto legale, sera delle beffe e così via) ma manca il tocco decisivo, l'espediente che ne illustri la creduloneria. E perciò lo induco a farsi coinvolgere dai tumulti provocati dalla carestia e lascio intendere al lettore che quanto meno è un soggetto influenzabile (specie trattandosi di un provincialotto nella metropoli tentacolare). Ma non basta, occorre qualcosa di esaustivo: la pirlata. E qui c'è da soffrire, ascrivendo tale pena allo scrittore in quanto persona. Intanto perchè, poniamo, Tramaglino gli sta dannatamente simpatico e poi perchè intuisce che vestirlo da ciulato indurrà lui autore in resistenza. Il preconscio, voglio dire, farà le bizze, giudicherà la manovra in contrasto col principio di piacere, col risultato di precludere all'Io il flusso mediato dall'azione creativa. Blocco, frustrazione, autore che si avverte inadeguato, e se affllitto da istanza punitiva sofferente di insanabile angoscia. In alcuni casi l'impasse può durare parecchio, se non proprio condurre a una rinuncia del progetto. Nel nostro caso dobbiamo supporre che l'autore trovi un compromesso, tra principio di piacere, ragioni dell'Io e permeabilità del preconscio. L'attuazione di un simile accordo prende allora forma in Ambrogio Fusella. Che è un viscido (dunque, il suo raggiro non svaluta il personaggio) ed ha il pregio di assumere funzione descrittiva del tal difetto di Tramaglino.

Secondo me il piacere di scrivere, se esiste, sta tutto qui. Un po' come lo slogan pubblicitario della Miscela Lavazza: "Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?"

Carlo Capone


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EDITORIALE : MORTE IN CONTANTI


EDITORIALE : MORTE IN CONTANTI

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banconote di euroC'era folla stamattina alla banca. Avevo fretta, quella fila innervosiva. Al mio turno ho detto qualcosa al cassiere, roba tipo 'era ora', o scemenza similare. Mi ha ignorato. Ha preso l'assegno, l'ha passato al visore, e detto 'firmi qua', fornendone il dorso. Ho siglato, cercando chi sa perchè di incrociarne lo sguardo, ma lui svelto si è messo a pescare in cassetto. Ora questo cassiere io lo conosco da tempo, un bravo signore, a volte scambiamo due chiacchiere - ma proprio due, per non intralciare - e insomma tra noi c'è un filo di rapporto. Ma un filo filino, questo è tutto. Oggi niente, come etereo: ha smazzato il contante, fatto per dare ma si è fermato, guardandomi storto...

"Torno subito", ha detto, lasciandomi quale statua di stucco. L'ho visto allontanarsi e sparire dietro una porta che suppongo del cesso. Due, cinque, non so quanti minuti, ed è riaffiorato, scuro in viso. Io come lui. Ha percorso il tragitto a ritroso, lentamente e affetto da una lieve zoppia, si è accosciato sul trespolo e ha ripreso a contare. Come avesse allora cominciato e io fossi un accidente casuale. "Ma insomma - mi è uscito spontaneo - siete in due per cinque sportelli, è uno schifo".
Mi ha rifornito di soldi - finalmente!, ho allargato le braccia - e fatto cenno di lato.
" E' morto", ha detto. Soltanto questo.
"Non ho capito, che cosa?"
"Il collega R. F."
"Chi? quelloooo?...."
"Sì, col pizzetto e gli occhialini. Ricorda?"
Ho annuito stringendo le carte a mezz'aria. Ed ero buffo, lo so, perchè tra me e un mimo, di quelli immobili in attesa di monete, non c'era confine.
"Un momento", ho fatto, infilando le banconote nella tasca, e tenendole in pugno quasi scappassero. "E' quello che si era rasato i capelli? era giovane!"
"Quarantotto"
"Come è successo?"
"Infarto"
"Soffriva?",
"No, che sapessi"
"Allora?"
"Durante un corso di aggiornamento. Si era ripreso, parlava e stava bene. Morto in ambulanza."
"Moglie e figli?"
Le solite stronzate di chi resta sul colpo.
"A Dicembre si sarebbe risposato".


Carlo Capone


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EDITORIALE : Parigi val meno di Napoli?


EDITORIALE : Parigi val meno di Napoli?

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Scontri a ParigiMa come si fa, guardando questa tragedia da guasti sociali e urbanistici, per citare un precedente post, come è possibile che nessuno pensi al disastro di Scampia? ...

Nacque come legge di intervento abitativo, si produsse come orrenda fungaia, si tradusse in deportazione in una landa da sempre gravida di sterpi e terriccio - non a caso vicina a Capo de Chio, l’odierna Capodichino, dove un tempo rizzavano forche e i morti pendevano a pubblico ammonire - come si fa a non dedurre che le stesse tecniche, contro le stesse specie di inermi disperati ( l’elemento etnico religioso non c’entra , c’è un humus di sprezzo e rimozione collettivi che accomuna le odierne periferie) rappresentano la risposta di un capitalismo renano al suicidio?
Il sabato sera i disperati di Scampia prendono il metrò più bello di Europa e sciamano per il Centro cittadino. E scippano, minacciano, sequestrano bus, frantumano vetrine, in fuga da un vivere bestiale. E qui Parigi val meno di Napoli. A Scampia almeno la scuola non brucia, e il Comune inaugura centri di aggregazione sociale , inerme tuttavia nei confronti del libero Antistato di Kamorra. Che dobbiamo persino ringraziare, se a Scampia non incendiano auto o scuole. Manco la speranza di una assurda rivolta c’hanno i disperati di Scampia. Due volte schiavi.



Carlo Capone




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EDITORIALE : IL VENTRE DA SQUARCIARE


EDITORIALE : IL VENTRE DA SQUARCIARE

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Matilde Serao - Il ventre di NapoliMatilde Serao scrisse Il ventre di Napoli tra il 1884 e il 1904. Mai come in questa occasione il riferimento cronologico si rivela cruciale. Tra l'84 e il 904 c'è di mezzo uno scorcio temporale tra i più mesti ( in tal senso consiglio La Storia di Napoli, opera in due volumi di Antonio Ghirelli, Einaudi 77, il cui primo analizza le vicende della città dalle origini greche, il secondo a la storia della città dal 1860 a oggi). In effetti la Napoli del primo quarantennio unitario vive un crudo processo di emarginazione, le cui cause vanno ricercate nella perdita del rango di capitale, sia pure di un regno fuori Storia, nel tramonto di un'economia protezionistica e direi dal disinteresse antropologico e culturale che caratterizza i primi atti del nuovo Regno...

Tutto questo, sia chiaro, non ha nulla a che spartire con le secolari lamentazioni di cui il Sud è stato ed è tanto maestro. Una cosa è certa: lo stato di abbandono della città è certificato da numerose interpellanze parlamentari dell'epoca - la Serao non è dunque una voce isolata- che i governi sia di Destra risorgimentale che di subentrante Sinistra non accolgono con l'urgenza dovuta. E non è un caso che proprio in quegli anni l'azione unitaria veda stingere la spinta ideale in sporca etichetta di operazione coloniale ( in proposito è bene leggere le lettere dei soldati del Regio Esercito, per lo più padani, mandati a combattere il brigantaggio meridionale).
Il colera dell'84 funge da scoperchio, come sempre in Italia ma non solo, e il disgusto pone al centro dei fatti la questione meridionale. Il Risanamento citato nel libro dalla Serao (lo spianamento cioè del rettifilo, con la nascita del quartiere omonimo) costituisce la risposta dello Stato in termini di cieco e, in mancanza di meglio, salvifico abbattimento di quartieri malsani, operazione ripetuta dalle gestioni laurine con il nuovo rione Carità e reiterato col terremoto dell'80 con l'abominevole deportazione a Scampia.
Ma il 1904 è cruciale per un altro motivo. Dopo le convulsioni di fine secolo, culminanti con i fatti di Bava Beccaris, l'Italia trova un periodo di pace sociale e sviluppo con Giolitti. E del rinnovato clima, come accadrà più tardi nei 60, la città si giova. Il 904 è l'anno dell'inaugurazione delle acciaierie ILVA, se non ricordo male, un motore di ricchezza e ragguaglio civile che darà luogo a una certa rinascita negli anni 10. Da quel momento Napoli si avvia a diventare la terza città operaia del Paese, e la traccia del cambiamento è ravvisabile in 'Tre operai', di Carlo Bernari, un romanzo del 33 sulle lotte sindacali - secondo certa oleografia appannaggio del proletariato settentrionale - di tre lavoranti di una fabbrica napoletana.
Certo, in questi interventi dall'alto la Serao già ravvisa i sintomi di una malattia. 'Io voglio i galantuomini', mi sembra reclami. E al Sud ce ne sono tantissimi,ma stanno zitti. O abdicano, come il principe di Salina, a favore di Don Calogero, il Sindaco trasformista di Donnafugata.
Come non apprezzare la sua analisi premonitrice?



Carlo Capone




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I Napoletani -


I Napoletani - "Generoso Picone" (Laterza)

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Il primo pregio di questo libro risiede nella copertina, uno splendido disegno di Enrico Tatafiore, che richiama il lettore verso lo scaffale che ospita quest’opera: un Vesuvio giallo che erutta lava rossa in un cielo nero, con due pesci sospesi in aria.
Naturalmente è solo il primo pregio di un saggio che cerca di rispondere ad una domanda che ha dell’impossibile: chi sono i napoletani?
Alla fine le idee non sono certamente più chiare, ma gli spunti che il libro offre sono tantissimi, tutti fecondi ed interessantissimi.
Mi piace riportare, a questo proposito, una frase che Picone pone nell’introduzione, e che trae da “L’armonia perduta” di Raffaele La Capria :”i napoletani non sarebbero quello che sono se in questo gioco autolesionistico-esibizionistico della 'napoletanità' non sprecasserro qualità di intelligenza, di spirito, di senso dell’umorismo (..) Nella maggior parte dei casi risultano 'simpatici', e fanno di tutto, come ho detto, per esserlo. Ma perché devono essere a tutti i costi 'simpatici'?”
Ebbene, questa domanda, dolente, dolorosa, sulfurea, coglie secondo me già una parte importante del significato dell’essere napoletano: spesso, molto spesso, è un cliche che ci viene imposto dall’esterno e che inconsciamente assumiamo per assecondare ciò che si aspetta l’interlocutore.

Il primo capitolo del libro è dedicato a quell’epopea eroica, utopistica e sanguinaria (per il suo epilogo) che è stata la Repubblica Partenopea, la cui fine, con l’uccisione e la diaspora della parte illuminata della città, è stata vista come causa di parte dell’arretratezza di cui Napoli ancora oggi soffre.
Alla Repubblica succedette un monarchia guidata da regnanti inetti e ignoranti, a cui un’iconografia anche recente ha riconosciuto pregi che spesso sono assolutamente immeritati.
A onor del vero, anche episodi misconosciuti di valore vengono sottolineati, riguardanti l’esercito borbonico, il famigerato “esercito di Franceschiello”, che a Gaeta scrisse pagine di eroismo.
Comunque, la figura dei regnanti borbonici esce malconcia dall’analisi e dalle fonti di Picone: riconoscendone i primati in alcuni campi dell’industria, non nasconde la realtà politica, sociale e sanitaria. Addirittura Ferdinando II si vantava dell’isolamento a cui l’Europa lo aveva costretto, fino al punto che Francia e Inghilterra ritirarono i propri Ambasciatori.

Passando attraverso la nascita della canzone napoletana, la Serao, Scarfoglio, Marinetti, Croce, si arriva a Guglielmo Giannini, Totò ed Achille Lauro.
Il laurismo è stata un’altra epoca infelice ed emblematica per Napoli, fenomeno dovuto alla saldatura tra sottoproletariato disperato (erede dei lazzari) e borghesia affaristica. La storica Gabriella Gribaudi scrisse che “Napoli fu abbandonata e si abbandonò a Lauro. Fu la sua definitiva emarginazione”.
Alcuni tratti del profilo laurino appaiono sovrapponibili al berlusconismo: il sacrificarsi, da ricco, per il bene degli altri, lavorare indefessamente, comprare la squadra di calcio, giudicare chi a 70 anni non ha nulla (De Gasperi, nel caso del Comandante) un fallito, slogan come “poca politica, poche chiacchiere, molti fatti”.
Per Napoli inizò il periodo che la Ortese definì “il silenzio della ragione”. Rea affermò che Lauro “sostituiva i re in una delle loro funzioni storiche, l’elemosina”. Compagnone chiosava:“Era un plebeo ricco e ben provveduto, bravissimo a rappresentare il peggio di Napoli”. Compagna :“Demagogo, plebeo e levantino”.

I nomi degli scrittori sopra citati facevano parte dei “ragazzi di Montedidio”, una pagina bellissima della storia culturale della nostra città, anch’essa conclusasi con un esodo, alla volta di Milano o Roma. Ai succitati bisogna anche aggiungere Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson, Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Raffaele La Capria.
Dopo l’esodo, Annamaria Ortese tornò una sola volta a Napoli in 40 anni. Fu incolpata, dopo il suo “il mare non bagna Napoli”, di eccessiva crudeltà nei confronti della città: quando lo lessi, il suo romanzo ebbe per me l’effetto di un pugno nello stomaco: all’inizio rimasi intontito, ed ebbi anch’io una reazione di fastidio verso la Ortese, ma poi, dopo averlo metabolizzato, dovetti convenire che non aveva torto: duro, ma non falso.
L’esodo si compì con la morte della rivista Sud, fondata da Prunas e che ebbe vasta eco nella sua breve vita.
Ghirelli andò via “perché semplicemente (…) messo per anni e anni con le spalle al muro”; La Capria “ci sentivamo isolati, abbandonati a noi stessi, ed è stato sempre questo l’atteggiamento di una città che ha in sospetto ogni iniziativa intellettuale”
Picone traccia poi un ritratto accorato e dolente di Renato Caccioppoli, genio della matematica, non sempre compreso e talvolta ostacolato dai suoi colleghi.
Il capitolo finale del libro è dedicato agli scugnizzi ed ai tentativi fatti da nobili, preti, comunisti o laici per la loro emancipazione. Si passa dalla nave-asilo per scugnizzi a don Mario Borelli, fondatore della Casa dello scugnizzo, fino alla Mensa per Bambini Proletari ed ai Maestri di Strada, attivi ai giorni nostri.
La tristezza di questo epilogo è che si spinge fino ai giorni nostri: la Mensa per Bambini Proletari agiva appena 30 anni fa, nel 1975, periodo in cui a Napoli c’erano ancora persone, tante, che avevano difficoltà ad unire il pranzo con la cena.
Situazione che si sposa e continua con l’alto tasso di evasione scolastica, ancora oggi triste primato della nostra città.
E la fine di questi ragazzi, soli, con un livello di scolarità prossimo allo zero, è la strada, la delinquenza, la kamorra. Enzo Granata, impiegato comunale che guida il coordinamento degli abitanti delle Vele di Scampia, afferma che “i bambini che ho visto nascere, a quindici anni mi terrorizzano”.
Parole dure, specchio di una realtà ancora più dura, che qualcuno vorrebbe nascondere per un malcompreso senso dell’onore. Domenico Rea afferma che dire la verità su Napoli significa rompere un tacito patto”quando qualcuno ha tentato la via della verità, per primi i napoletani si sono ribellati, e non vi si sono riconosciuti; mentre credono di ritrovarsi nelle canzonette”.
L’ambiente culturale partenopeo è sempre fecondo, ed infatti si spazia poi da Erri De Luca a Montesano, dalla Cilento a Peppe Lanzetta, da Franchini alla Parrella: tanti bravi scrittori. Napoletani?
Un momento, Fabrizia Ramondino ha pubblicato nel 1999 un “Manifesto contro la definzione di “Scrittori napoletani”:”Se uno scrittore viene a trarre dalla sua regione un significato più largo, vuol dire che è riuscito nella sua arte. In caso contrario rimane uno scrittore locale”.
Ed infatti Erri de Luca afferma che lui è da Napoli, non di Napoli, perché “Napoli è la mia fortuna di origine. Perciò sono da Napoli. Sento meno il genitivo d’essere di Napoli”.

Insomma, i due secoli di storia raccontati da Generoso Picone sono uno spunto non per cercare di capire chi sono i napoletani, ma rappresentano una traccia da seguire (e ce ne sono a decine, in questo libro) per approfondire questo argomento affascinante e misterioso, antico e moderno, generoso e pavido, eroico e vile, di cui anche noi facciamo parte.

Inviata da giaguaro







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PILLOLE... : Il Giuda crocefisso


PILLOLE... : Il Giuda crocefisso

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Judah FolkmanFumo 9 o 10 sigarette al giorno, non di più, e non so se basti per dichiararmi un eletto. Ma non è questo il punto. Mi chiedo ogni giorno, ogni anno che passa, e questa vita sembra farmi pirirpì, come mai la comunità medico- scientifica non riesca a a trovare cure 'davvero efficaci' alla 'malattia di 'quest'altro secolo'. A volte ho il sospetto che una certa inerzia inerente il sistema (la chiamo inerzia, ma il sostantivo è un altro) frapponga ostacoli a chi è vicino all'idea. Nel 98, ad esempio, un ricercatore americano - Judah Folkman - annunciò di aver preso il cancro per fame, atrofizzando i vasi che ne alimentano le brame. La notizia fu accolta con vasta eco sui media e assensi della comunità scientifica, eppure non riuscivo a spiegarmi il disappunto del diretto interessato, persona degnissima e ascoltata. Un due anni dopo fu attaccato dai suoi stessi colleghi. Non è noto a tutt'oggi se la sperimentazione prosegua, e in caso affermativo con quali risultati. Certo se debellare il cancro servisse a dimezzare le vittime di un esercito, come accadde per la penicillina nel secondo conflitto, beh, io penso che i progressi sarebbero enormi. Internet, il fax, le fibre ottiche, i cellullari, (per citare alcuni esempi) sono figli bastardi di una guerra, sia pure al gelo.

Ora, l'attuale stato dell'arte - lasciando in sospeso le cure efficaci: che non sono esaustive, malgrado le sbandierature da palio, e per lo più garantiscono 60 mesi - prescrive come cura principe la prevenzione. Mangia così, bevì cosà, respirà là, e soprattutto: non fumare! se ti azzardi sei un gran criminale e per giunta fesso.
Giusto, corretto, l'invenzione del secolo, però guardate, avrei da eccepire. L'impotenza della medicina ( o la consapevole inerzia ?) non può essere pagata coi sensi di colpa in chi fuma. Non solo muori, ma devi pure maledirti - questo il succo di tanta ricerca - manco fossi un bestiale assassino. E bravo chi non fuma! Secondo tale visione, imposta per colpe quelle sì criminali, costui è duqnue un eletto, destinato duqnue a un bell' exitus senza urla ferine, tra gli applausi scroscianti dei cari e i ''bravo, bravo!' della folla in cortile.
Caro Veronesi, negli anni 80 lei diceva "fumare uccide, ma se proprio non riuscite, un 5 Futura pro die non fanno male. Ad ogni modo fra dieci anni vinceremo". Nei 90 riprese: "Una sola sigaretta è una cambiale al becchino. tra una ventina d'anni riusciremo". Questa estate se n'è poi uscito: " non c'è alcuna ragione che induca a stabilire connessione tra smog e morti per tumore". E in un recente editoriale su Repubblica ha infine concluso: "un giorno - sì, ma quando? - troveremo le cause biologiche e ambientali che provocano questa tremenda malattia".
No, dico, ma tu che ci stai a fare??? a pigliarti la gloria per un fallimento professionale e di vita che non ha pari nel globo terracqueo? ( ovviamente mi riferisco alla comunità scientifica nel suo insieme, non alla singola persona). Questo solo sai dire, a parte le istruzioni per l'uso che a volte sembrano proprio fatte su misura?
Non so, mi viene in mente quel famoso articolo di Sciascia sui professionisti dell'antimafia (articolo che non approvo oggi nè allora assolsi, ma serve solo per stabilire l'analogia concettuale). Sta a vedere che l'epos del cavaliere errante frutta.


Carlo Capone


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PILLOLE... : FREUD, LEONARDO E L'EGIZIO


PILLOLE... : FREUD, LEONARDO E L'EGIZIO

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Sigmund FreudL’enigma dell'animo femminile è stato risolto dal genio di Leonardo – più di quanto sia riuscito a Flaubert e Tostoi - e in pari misura dall’intuito di un egizio. Solo essi, il fiorentino e l’uomo della Sfinge, ci riportano all’indeterminatezza, le antinomie, a quel mix di inferno al miele e paradiso di pene che ne costituiscono i tratti effettivi.
La donna sconta una gabbia in cui la società, e il personale soffrire, pretendono di confinarla. E da tale costrizione, che troppo spesso diventa castrazione, nasce il promiscuo di fiamme e ghiaccio che ne specifica il sentire. Basta osservare il modo in cui ci guarda Monna Lisa, o come la Sfinge osservi il tramonto di Orione, per realizzare il senso di fascino e tragedia dell'eterno femminino.
C’è un terzo ermeneuta, in questa sfida al senso di una specie, ed è l’analista di Vienna, che fornisce una chiave convincente in ambito epistemologico. Per Freud, a differenza del maschio, che si affranca due volte dalla stessa figura (la madre, dapprima intesa come oggetto primario e poi come scopo di amore), la donna sconta un duplice distacco, intanto dall'imago materna (come accade per l'uomo) e quindi da quella paterna, destinataria del secondo indirizzo affettivo. Ora, se è già difficile liberarsi due volte del medesimo oggetto, figurarsene il costo se risulta diverso.


Carlo Capone


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I giorni dell'abbandono -


I giorni dell'abbandono - "Elena Ferrante" (E/O) 2002

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Di Elena Ferrante ignoriamo tutto. Età, luogo di nascita e fisionomia. Sappiamo però che nessuno meglio di lei sa descrivere l'animo femminile, e ci basta. C'era già riuscita con 'L'amore molesto', fornendo una prova amara e palpitante del rapporto di amore, invidia e gelosia che lega e divide una figlia dalla madre. Un viluppo di istinti che spinge la protagonista a inventarsi un'accusa infamante - aver sorpreso la madre con un uomo, quando era bambina – causa di una definitiva rottura familiare.

Con 'I giorni dell'abbandono' la Ferrante va oltre, si libera del simulacro dei giochi di mente e scruta senza veli gli abissi di una donna piantata dal marito e soggetta a un duplice assalto. La disistima per il fallimento di un legame- invero ingiusta, vista la caratura dell'uomo, un vigliacco immaturo- e l'incredibile serie di eventi in cui si dibatte.

Siamo a Torino, una Torino gelida e deserta come solo Torino sa essere a ferragosto. Una donna ancora attraente, di presumibile origine napoletana, annichilita dal trauma e dalle sue implicazioni, si trova costretta in casa per un inceppo di serratura. E siamo al principio. Un improvviso rialzo febbrile induce il figlio in convulsione, il telefono si rivela anch'esso fuori uso e il cane, il più lucido di tutti, di colpo rantola e vomita bile. Nessuno come la Ferrante ha mai saputo imbastire tanti accidenti, interiori e fattuali, legandoli col filo della disperazione e servendosi del climax di azioni scomposte, risibili, arruffate della donna -mosca impazzita in un bicchiere - per spiegarne l'inferno del cuore e il pasticcio dei farmaci della ragione. Un distillato di angoscia e parossismo, questo è il nocciolo della vicenda, un flusso di rabbia, paure e smarrimenti che sedimenterà con la morte del cane. E qui la Ferrante sembra darci una chiave. L'impasto di tensioni, ormai insostenibile, pretende che uno degli attori si immoli per gli altri, pena il disastro collettivo. Sarà un caso, ma come il cane muore, il bimbo riacquista coscienza, il telefono riprende a squillare e l'inquilino di sotto - un dolente violinista indotto in precedenza a un rapporto ferino pur di sentirsi desiderata - bussa alla porta e la sblocca.

Il tradimento, dunque. Anche in questo romanzo la Ferrante ce ne illustra gli effetti, servendosi ancora di una crisi femminile. E poi la sincronia. Un oscuro regista riverbera l'angoscia da abbandono, e i sensi di colpa di chi la subisce, col distacco delle cose in ostile congiura. Eppure il sincronico è anche dio di resurrezione, agita esseri e fatti per mettere alla prova, rifornendo la donna di linfa. La ritrovata energia, l'uscita forzosa dall'abulia e dall'autocompassione mostreranno le mete di un riscatto, spingendola a ripartire.

Magari dal timido violinista.


Carlo Capone






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