RACCONTI: Innamorarsi a Dublino


RACCONTI: Innamorarsi a Dublino

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Innamorarsi a Dublino, ma quanto è strano, assaporare il latte sulla pizza - io che sulla pizza ci bevo birra e basta- e dire pure ‘ma che buono!’. Perdere la testa qui in Irlanda, insomma, colpita a tradimento da un pugnale.
Così fa quel bastardo che detesto citare: una scintilla nella miscela animale e poi lo scoppio di una fantasia. Io penso proprio che sia questo l’amore, ma non ci giurerei, visto che non so neppure come è fatto. Ma pure ammesso che sia lui, cioè appurato che sia presa da questa fantasia …che farò domani? Cosa racconterò al mio spirito di aladino, passate queste ore di bisbigli, sonni leggeri, qualche stella in cielo? saprò distinguere tra un capriccio del senno e qualcosa di essenziale? Niente, che vuoi che faccia, mi acquatterò buona buona, e se accadrà l’amore ci penserò allora. Per ora me ne sto al buio e penso, in questa notte di equinozi, sensi di primavera, voci silenti di un’oscura magia. Ardono, in questo buio, bruciano i miei pensieri, girano un girotondo di folletti. E per favore, non scomodiamo la parola, è roba stracca, voglio solo starmene con i desideri, lievi e gentili come il sorriso del mio guerriero.
E’ venuto, ieri sera finalmente l’ho visto. Ma non c’erano massi, odore di muschi, schiaffi del vento d’oltremare. Né ho udito erba sotto i passi o visto lui che soffiava in cielo. Vecchie fandonie di storielle celtiche. Ero al pub col mio amico Salvatore quando, già alticcio di birra e anisetta, è scattato in piedi, ha fatto gesti alle mie spalle e poi, non accusando risposta, sbraitato: “Roy, brutto traditore, come and sit with us!”.
Roy. Un tuffo in petto, come picchiassero alla porta. Ha indugiato, vista la sceneggiata di Salvo o forse perché c’ero io, quindi l’ha spalancato, l’uscio, e finalmente ho visto: cupido? No, un bel sedere. Nodoso alquanto e piatto perché intuissi fosse di maschio. Il culo! insieme a un tronco asciutto e due spalle dritte, così si è rivelato questo amore. Glutei, tronco, spalle, tutta sta roba ha puntato Salvo, forse esclamato ‘hi, Sal!’ e poi battuto un cinque sul suo petto. Salvo ha barcollato, lo dico esagerando – quando è ubriaco è peggio di un pagliaccio - spiegato le sue alucce e attirato l’uomo. Allora il gas ha scintillato, schiarendo la seguente scena: natiche, schiena, spalle, golf blu notte, hanno espulso braccia con relative mani – dalle dita sottili, le nocche un poco rosse – restituendo l’amplesso. E mentre si pigliavano una guancia bionda, folta di peli, si è adagiata sull’opposta di Salvo a bisbigliare. In quel momento, la gran fessa che sono, l’ho spiato alle gambe. E se mi insulto è perché qualcuno in testa me lo rinfacciava. Di scoparmi con gli occhi le cosce di quell’uomo: lunghe, un po’ arcuate. Storte, a essere sincera.
“Ti presento miss D’Ambros, è qui per darci una mano”.
Il Professor Salvatore Gallo si è espresso in perfetto inglese, come gli capita nelle gravi stanze dell’Istituto Manzoni di Dublino. E come faccio io? In che modo succhierò le idee a ‘sto guerriero? Al diavolo l’inglese, adesso stavo facendomi la sua barba! nel senso di scoparmi un fogliame di peli, una selva lucente per sorriso lieve e sguardo fondo più del cielo. Questo il pugnale, tale l’incendio del mio gas: due occhi belli come l’acqua e un’espressione. Da impareggiabile figlio di puttana.
Le suddette scopate hanno avvilito le idiomatiche di introduzione. Un naufragare tra baleni e scoppi (ma quanto gas avevo in corpo?), se invece di dire hi! mi è uscito un abominevole gled tu sii iu. Tu sii iu? Ma allora dillo, ammettilo che te lo fai con gli occhi, se no avresti detto mit, tu mit iu!
Il ganzo mi ha tratto a secco dal suo mare: “parlo discretamente l’italiano, non si affanni”. E mi ha sorriso dolce dolce.
“Mi scusi tanto – che ti scusi, che t’importa, scema!- mi scusi tanto, mi succede spesso…”
“Really?”
Rili? Come sarebbe a dire rili? Ma chi t’ha dato le mie chiavi? Chi ti ha mandato qui a bussare? Guarda che ti piglio a morsi, sai? io ti divoro come una cannibala polinesiana, se non la smetti di impicciare.
“Eh, mi incasino sempre introdiusing mi”, ho allora ammesso, frullando le zucchine con banane.
“Normale, capita a anche a me quando sto in Italia”.
Normale? Come sarebbe a dire? Ti sembra ovvio che io affoghi nell’acqua? Che tu mi acciuffi con la bocca? E nuotiamo insieme, noi due e nessuno, fino a sfinirci sulla riva? alcol, prendo del gin e verso. “Vado a pigliare un po’ di aria”, dice in quel mentre Salvatore. Sì, vattene un po’ fuori, vai.
“Beh, dopo otto mesi speravo di essere…di essere più brava, ecco”.
“Sogna già in inglese?”
Stretta abbarbicata al mio bicchiere, fermo a mezz’aria tra di noi. Noi due da soli.
“In inglese? Sa che non ci avevo mai pensato?”
Ha svuotato il suo, nuotandomi tra le cosce con un ammicco.
“Aspetti”, ho ripigliato, “c’ha ragione ….”.
“Cioè?”
“L’altra notte, un sogno, c’era una mia amica….si chiama Chiara”.
“E lei?”
“Lei chi? Non ho capito”.
“Il suo nome, lei, come si chiama?
“Io? E che c’entro io?”
“Semplice curiosità, ‘rabbiata?”
“Si figuri! Iz e long stori, non so se adesso…senta, faccia che mi chiamo Lalla e basta …. ‘rabbiato?”
“Buonasera Lala, mai stato meglio. Sogna già in inglese?”
“Io? Ah già, il sogno. Certo che era in inglese. Dunque, stavamo sul ponte, il ponte diii… come si chiama? quello famoso…”
“O’ Connel?”
“Forse, ma poteva essere un altro… ‘sti sogni! io quando li faccio….”
“Beviamo ?”
“Noi due? Con piacere… dicevo?”
“Il ponte”.
“…giusto. Lei era dal lato della Posta, iiiio…ennò, io ero di qua, questo è sicuro … ero versoo…”
“Aston?”
“Più o meno. Insomma, mi gridava ‘sbrigati, facciamo tardi!’, e io ferma, come se qualcuno mi tenesse, che angoscia. E non è finita. All’improvviso compare una vecchia. Sìììì, una che rideva e rideva, madò, l’avrei strozzata quanto rideva. Si è avvicinata, ha aperto bocca e sa che ha fatto?”
“Baciata?”
“Un bacio? Maddai! ce li avessi così i sogni! s’è tolta la dentiera, capisce? adesso però non mi guardi così…sa, io…”
“Non la posso guardare, Lala?”
Ma prego, accomodati, fai pure, stenditi dove vuoi. Io e te, insieme, nudi nel mare dei tuoi occhi.
“Ci mancherebbe, volevo dire che è un sogno scemo, non crede?”
“Affatto, significa che l’inglese l’hai imparato. Ops, scusami se ti ho dato del tu”.
Tu. Io. Perduti dentro noi. Non ci so nuotare in questo mare, e temo anche di affogarci. Vattene, perciò, ti adoro, sparisci dai miei sogni folletti, e se ti ostini, se mi danzi dentro nei desideri, vuoi proprio che ti dica? Sicuro sicuro? Sono un’analfabeta, ignoro la prima persona plurale, e peggio mi succede con la parola, un suono a cinque lettere e nient’altro. Intesi? Toc toc, uffa, ma guarda se capisce! tipico zuccone irlandese. T’ho detto vattene, ti adoro, non c’è posto! Toc toc, eddai! Ma sei di coccio? sogno già in inglese, ogni notte, in bianco e nero, occhei? Stop, finito, toc toc, ancora! senti, ti prego, ti amo, dimmi che sei il lattaio, o il tizio delle tasse, aspetta, mi voglio rovinare, il poliziotto che riconsegna il sacco della spesa. Tutto, mi va bene ogni cosa, purché non senta più quel tocco. Anzi, sai che ti dico? noi, noi due da soli, manco ci siamo visti, sei un gioco della mente come se ne fanno a migliaia. E perciò t’ammazzo! socchiudo gli occhi e ti immagino seduto al cesso. Honey.

Carlo Capone


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La scampanata -


La scampanata - "Bartolomeo Di Monaco" (Marco Valerio) 2003

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Terminando questo romanzo breve di Bartolomeo Di Monaco ho avvertito un disappunto. Non perché la storia, l’intreccio e il lessico mi abbiano deluso, anzi: il libro è scritto bene e si legge in un soffio. Parlo dell’inquietudine per il destino di Angela, la protagonista, e della domanda consequenziale sul perché la vita sia matrigna con chi trasgredisce, sia pure con travagli, e premia chi liberamente asseconda i propri estri. Quesito non da poco, se niente meno che Dante ce lo propone con le vicende di Francesca e Cunizza, dannando l’una a una tempesta eterna e assegnando il Paradiso all’altra.

La scampanata narra appunto di due donne, Angela e Caterina, entrambe con mariti costretti alla lontananza ed esposte a tentazioni. Fuor di metafora e perbenismi posticci: Angela e Caterina lottano, secondo specifica inclinazione, col bisogno di far sesso – che per Angela è anche esigenza di amore nell’accezione alta, per Caterina è bizzarria dell’eros - si cimentano, dicevo, con se stesse, e con i divieti impliciti del vincolo matrimoniale. Ci imbattiamo allora nell’altro cardine del romanzo, anch’esso riconducibile a un quesito: perché all’uomo – almeno in una certa cultura - è concesso esprimere l’ansia di erotismo, specie in gioventù, quando assume urgenza ultimativa, mentre per una donna - almeno in certi contesti e a dispetto delle conquiste novecentesche - quel desiderio origina conflitti e pregiudizi?

Siamo in Lucchesia, metà del 44, l’Italia è dilaniata dalla guerra, in quelle zone la Linea Gotica è un filo incerto. Angela e Caterina sono due giovani e attraenti spose, rispettivamente di Tonio e Salvatore. Vivono in una di quelle corti rurali di Toscana - allora frequenti, oggi rimpiazzate da rifacimenti immobiliari – un microcosmo di esistenze che fanno del vivere in comune un fortilizio ma anche una prigione di veleni e ipocrisia. Insomma uno spaccato del tempo – verrebbe da dire di 'quei' tempi - che, vedremo, rifornisce il lettore di inaspettate informazioni .

La vita delle due si consuma tra notizie di atrocità dei tedeschi, echi di incursioni partigiane, lavoro alla manifattura tabacchi – la industre Lucchesia qui fa esplicito capolino - e soprattutto il pensiero ai due uomini prigionieri in Germania. Ce ne sarebbe per un’esistenza di attesa – in qualche modo Tonio e Salvatore inviano missive, cui le donne riescono a dar risposta - e tuttavia inquieta: chi assicura che torneranno? e chi risarcirà, in caso negativo, della gioventù perduta? Del domani non v’è certezza, recita la canzone del Magnifico, e Bartolomeo Di Monaco, da buon toscano, prende atto. Sentiamo come la canta, la sua canzone: Angela era rosa da un tarlo che non le dava più pace. Tonio era ormai prigioniero dei tedeschi da circa un anno … le scriveva, le diceva dolci parole. Anche lei rispondeva con dolci parole, tuttavia il suo corpo di giovane donna fremeva. Sapeva della sua amica Caterina, anche lei sposa di un uomo che i tedeschi si erano portati in Germania. Ne parlavano insieme,a volte, dei loro mariti prigionieri e della vita che era stata così crudele. Che cosa avevano fatto che meritasse una punizione così dura?

Un giorno Caterina la chiama in disparte: Delle amiche mi hanno portata vicino a Livorno, a Tombolo, dagli americani……vieni anche tu. Mi sono divertita un sacco.

Il divertimento di ‘quelle amiche’, lucchesi e del circondario, consiste nell’andare a Tombolo, intrattenersi con gli americani – magari, ma non necessariamente, per denaro - e volentieri farci all’amore. E di quel diletto Caterina è appetitosa, al punto che un giorno, all’uscita di fabbrica, invita una compagna di lavoro ad informare Angela su come a turno si concedono a quegli uomini, per poi irriderne i difetti. C’è chi è più maschio dell’altro, sai? – confida maliziosa la donna- chi si butta su di noi con una passione che pare quella di un selvaggio, chi è più cortese, chi ha paura di farci male - noi, figurati! - …chi dopo aver fatto all’amore non riesce più ad alzarsi, chi invece ricomincerebbe da capo, e qualche volta l’ho voluto mettere alla prova e, iolai, è stato come una bestia, e sbuffava come prima, anzi meglio di prima perché sembrava provarci più gusto. Poi c’è quello che si tira su i pantaloni e non ti dice nemmeno grazie. Volta le spalle e se ne va lasciandoti aggiaccata con le gambe ancora aperte…ce n’è poi uno che prima di cominciare si fa il segno della croce…. Perché? gli domando. E lui "sono un cristiano sposato, e tradisco mia moglie solo per necessità”.

Si ha idea, in questa fase – ma riaccadrà più avanti - che l’autore usi il discorso di un personaggio marginale come espediente per descrivere quanto accade a Tombolo. E si riscontra che la donna accetta l’invito del suo animatore per testimoniare con semplicità orgiastica e antimaschilismo sprezzante la guerra di alcune lucchesi alla guerra vera. Una originale resistenza fatta di anticonformismo, rivincita sulla morte e russelliano elemento bacchico.
Anche se a mio marito ci penso, non sono mica una bestia, ma so che la guerra non me lo restituirà, ammette. E se il lettore si chiedesse dove origini tanta sicurezza ecco la cinica motivazione: in guerra sono pochi quelli che scampano. Il mio sposo non ha mai avuto fortuna. E non l’avrà nemmeno stavolta.

Allora, dobbiamo pensare a sfacciataggine o semplice irrequietezza, restando in superficie dello scritto, o riandare ai versi di Lorenzo? E affermandosi la seconda ipotesi come combinare il bisogno di giovinezza col giudizio morale?

Caterina, dunque, va per le spicce, se Angela la rimprovera di recarsi a Tombolo non per denaro – ammesso sia una giustificazione - ma compiacimento di appetiti, non esita ad ammetterlo, anzi propina una personalissima visione della Storia: la guerra mi ha tolto Salvatore, col quale facevo l’amore. Lui è andato alla guerra e io non ce l’avevo nel mio letto, e dopo un po’ non ce l’ho fatta… La guerra per me è questo: la mancanza di Salvatore.

Non c’è scampo, Angela è stretta all’evidenza, a nulla serve che abbia appena scritto una struggente lettera al marito dove appare, a questo punto non sappiamo quanto sinceramente, innamorata e devota. Non sappiamo, dicevo, anzi stenteremmo a orientarci nel manzoniano guazzabuglio del suo animo se appunto non accorresse il narratore, ancora usando un personaggio, Caterina, come specchio dei conflitti dell’altro.

Nei giorni a seguire la situazione si chiarisce. Malgrado gli ammonimenti allusivi della madre sulle insidie dei tempi e sul peggiore di tutti, il marchio di adulterio, Angela assume ragione, e il suo risolversi getta uno squarcio di luce sui pretesti della mente quando si assume una scelta fuori prescrizione. In fondo Tonio se l’è cercata – argomenta a se stessa - fosse stato furbo come gli altri i tedeschi non l’avrebbero beccato quando fu sorpreso in caserma. E ancora: da una sua lettera pare che abbia contratto malattia ai polmoni. Da queste cose, si sa, non si guarisce: ritornasse invalido chi la risarcirebbe delle gioie perdute? Meglio quindi agire adesso, giacchè in qualche modo poteva avere un’attenuante, e la gente avrebbe forse capito.

Il giorno dopo si intruppano su un camion ricavato da una corriera. La strada che da Lucca porta a Tombolo rifornisce la comitiva di giovani donne, tutte con la medesima prospettiva. La meta si presenta come luogo del destino, un crocevia di aspirazioni, urgenze, incertezze: chi va per godersi il momento, chi per soldi e chi per marchiarsi a futuro disprezzo. Il luogo di ritrovo è uno squallido stanzone, una baracca nel cui interno un’ orchestrina suona jazz e boogie woogie per una folla di coppie, chi a un tavolino e chi stordita dai balli e dal bere. Entrano, Caterina la spinge tra la calca e si fa vivo un suo precedente partner, un giovane del Montana grande e grosso come Tonio ma non così bello. Non è una trovata originalissima, questa dell’americano alto, sorridente e dai denti bianchissimi, però la descrizione del personaggio assume caratura quando apprendiamo che è di ascendenze greche e che in America insegna lettere, a evidenza che si può praticare il luogo comune ma a patto di arricchirlo di tocchi che ne reinventino la natura.

Dunque, lui parla, lei lo ascolta, lui informa, lei annuisce. E’ invitata a ballare, tergiversa, ma poi cede e la serata scorre via. Se l’era ripromesso, del resto: vado per capire, vedere l’atmosfera che si respira, senza impegni di sorta. E John l’aiuta in questo incespicare.

Siamo in estate, i tedeschi rastrellano nelle corti, irrompono in quella di Angela sfiorando la tragedia, i tempi incupiscono. E tuttavia scopriamo che il paesaggio interiore della ragazza è in distonia coi fatti. Malgrado le crudezze e la fatica del lavoro guarda la vita con anima leggera. Un giorno Caterina la provoca per scherzo - “E se mi riprendessi John?”,
ammicca - meritandosi una replica che svela i sentimenti dell’amica. O Angela, la rimprovera Caterina, mica ti avrò portato a Tombolo perché ti innamorassi? …uno basta e avanza. Allarga solo le gambe e lascia stare il cuore. Quella sera decidono di andare a Tombolo, Angela porta con sé l’ultima, e appassionata, lettera di Tonio, che termina così: se ci amiamo teniamo in pugno la nostra felicità. La temiamo prigioniera col nostro amore. La piega in quattro, ci pensa su un momento, sale sul camion del desiderio. E di lì a niente siamo avvertiti che a quella lettera ha già risposto rinnovando amore e fede107ltà, tradendosi - volutamente ?- quando riporta in chiusa che ho paura che la guerra ci renda diversi. Temo che quando ci rivedremo non saremo gli stessi. Un guazzabuglio, si diceva, l’animo di questa ragazza, un pasticcio di tarli, conflitti, contraddizioni, finanche di tentativi ingenui di garantirsi future impunità. Non è più vantaggiosa, allora, la scelta di Cunizza ?

Quando lessi Madame Bovary, insieme al risaputo distacco del narrante mi colpì l’intento cronachistico.. Al tempo di Flaubert non c’erano mezzi di comunicazione, il romanzo serviva ‘anche’ a scopi giornalistici. Pochi a Parigi, ad esempio, conoscevano le costumanze di provincia o le peculiarità delle civiltà rurali. Da qui la meticolosa descrizione, finanche degli arredi di case, fattorie ed aie, che pone lo scrittore in veste di reporter ante litteram. Un intento simile anima Bartolomeo Di Monaco. Prima che la storia proceda una lunga digressione ci immerge nelle corti di lucchesia di allora. Di esse si era parlato, qui si aggiunge che ne vengono descritte usi e atmosfere. Si comincia col clima della stagione degli amori, durante cui l’intera corte – ma il discorso è uguale per i rioni di città - partecipa festosa al nascere di nuove coppie, sempre però che i due appartengano alla corte o a quel rione. In caso contrario l’ intruso viene respinto con l’apporto della comunità intera
(si vigilava sulle donne come sul bestiame o sui denari nascosti sotto il materasso… l’onta maggiore era il tradimento delle donne. Non ci si passava sopra, come se fosse faccenda che riguardava non il marito, ma tutti). Si prosegue con la descrizione minuziosa delle case rurali ( a tre piani, adibiti ad abitazione, fienile e locale per le bestie ) avvisando che le comunità maggiori ospitano anche una cappella e rammentando che la corte si regge su regole capitali: laboriosità, rettitudine e spirito di sodalizio ( Le sere, tornati dai campi, uomini e donne mettono fuori le seggiole impagliate, si adunavano l’un vicino all’altro a chiacchierare e non c’è voce importante, come quelle della politica o dei fatti di Lucca di cui non si discuta). Da buon quotidiano orale l’intrattenimento ospita anche le dicerie, i pettegolezzi, oppure mitiche storie per i bambini con personaggi i cui nomignoli mostrano la mordacità toscana. Sentiamone alcuni: il Gobbo, Lo Sdentatato, Il Mago, Sputone, Canterino, Piscione, La Pettegola, La Culona, Puppore d’oro, La Bavosa, La Stallina.

Ma c’è un rituale – detestabile ancorché circoscritto ai tempi - che presto si impone nella sua scabrezza, ed è la scampanata, un complesso di livore da fiducia sfregiata, aberrante caccia alle streghe e pubblica punizione. Capita che la donna sospetta di adulterio venga pedinata a sua insaputa, secondo appostamenti ossessivi e discreti, finché scoperta senza macchia di dubbio. A quel punto gli uomini si danno appuntamento una fatidica sera, si armano di tamburi, fischietti, coperchi e trombette e partendo fuori corte vi irrompono suonando quella che presumiamo non sarà una serenata. Giunti al balcone dell’adultera il fracasso si fa assordante perché tutti spalanchino le persiane, trova una pausa per la scansione del nome della rea e riprende con lo sfogo degli insulti, a cominciare da quelli di puttana, troia, battona, maiala, fino ad altri che si coniavano lì per lì per la
fantasia. Urla, improperi, ogni finestra illuminata e unica al buio quella della strega. Il cui destino da quel momento è segnato, difficilmente la vita tornerà a sorridere.

E’ inevitabile che il rituale colpisca anche le nostre, come intuibili sono le rispettive reazioni. Angela si affaccia e scongiura la sua innocenza, ma figurarsi i menestrelli, ci danno dentro con più acrimonia. Caterina replica secondo inclinazione: “dovete ringraziarli, gli americani, che vi salvano la pelle, a voi rammolliti”.

Da ora in poi questa maledetta storia incarognisce con la guerra. Se quest’ultima registra un crescendo di tragedie - i tedeschi fucilano un prete alle mura di Lucca, giustiziano giovani sospetti di partigianeria, a Sant’Anna di Stazzema compiono il più atroce dei massacri
– non meno aspro si rivela quella di Angela, che lotta contro gli occhi, i rimproveri materni e le osservazioni di don Emilio, il curato di corte, finché una sera, sfinita dall’insonnia, agisce quel delirio e strilla la sua innocenza a un uditorio deserto ancorché ostile. Ma un conflitto vero pretende il polo avverso. Identificando l’arrivo del marito con una insostenibile colpa ripara nelle fantasticherie di fuga col suo John, del quale nel frattempo è divenuta amante. Con quale coraggio? giunge una lettera di Tonio in cui le parla di tre stelle allineate in cielo - osservale, ci riuniranno pur stando lontani, le supplica - e perciò sospende le andate a Tombolo e medita di confinarsi in casa. Castigo breve se poi invoca Dio a scusante per tornarci: se non alza un dito per scongiurare le barbarie è colpevole anch’Egli, dunque non potrà condannarmi insieme a Caterina e tante sventurate. La ritroviamo allora a Tirrenia, mentre si amano teneramente e fanno un bagno in mare, la rivediamo fra le braccia di John più attratta dalla vita che vinta dalla colpa. La giovinezza sarà mai un delitto? Passano i giorni e passa anche il fronte, dopo un bombardamento che sembra non finire gli americani entrano in Lucca. Ne informa Tonio, e prontamente, come a voler mettere una pietra sulla guerra e l’amore, non va più a Tombolo. Ma cosa è ormai Tonio, il vero amore o un macigno? Siamo all’epilogo, gli americani si sostituiscono agli inglesi, Caterina la informa della partenza di John. E perciò scrive a Tonio, prossimo al rientro, mostrandosi impaziente di abbracciarlo e costringendo chi legge di nuovo a domandarsi chi sia: un vittima della Storia o di se stessa? dovremo tenerlo a mente quando affronteremo il finale. Che ci obbligherà a rivedere ogni previsione ma anche a riflettere sulle oscurità dell’animo, e perché no? sulle scelte operate dall’autore.

Ho conosciuto Bartolomeo la vigilia di Pasqua, trascorremmo il pomeriggio parlando di letteratura e altro. A un tratto, a compendio di non ricordo che discorso, confidò ‘oggi mi sono confessato’, rivelando in viso e con un gesto la potenza salvifica del perdono. Tale confidenza mi è tornata in mente ultimando La scampanata, quando ho rivissuto quel potere da lettore, non senza tuttavia rimuovere il dilemma: perché alla licenziosa Cunizza la luce infinita e alla dolente Francesca la tempesta eterna?


Carlo Capone




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A proposito di Pasqua e... Pastiera


A proposito di Pasqua e... Pastiera

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colomba di PasquaIn questo periodo, settimana santa, mi viene sempre in mente un ricordo di molti anni fa.
Primi anni sessanta, 62 credo , era il giovedì o venerdi’ santo.
Con mia madre andammo trovare zì Maria che stava a Napoli , Bagnoli per la precisione.
Il palazzo si ergeva lungo una strada che costeggiava il mare a ridosso di una collina.
All’ingresso il portinaio con un’improbabile divisa e con molto garbo chiese dove fossimo diretti.
Rassicurato indicò il piano: il secondo, noi lo sapevamo già. Ci congedò augurandoci un buon giorno con tale partecipazione, gentilezza e trasporto che se buono non fosse stato, lo sarebbe diventato.
Man mano che salivamo le scale, un miscuglio di profumi dolciastri, accattivanti di magnolia,(si ricordo proprio la magnolia) vaniglia e frutti tropicali canditi , pervadeva l’androne e le mie, allora, piccole narici.
La fantasia di un pre adolescente, già molto goloso, mi trasportava etereo come i profumi, in quel frangente diventati persino insinuanti, al banco stracolmo di una pasticceria ben fornita.
Il fantasioso vagare venne interrotto dall’abbraccio amoroso della zia che, aperta la porta al suono impaziente di mia madre, non gli sembrò vero che fossimo arrivati.
Ciò che vidi davanti a me, appena varcata la soglia, fu il realizzarsi del mio immaginario, un trionfo di torte: pastiera, pastiera con la crema, pastiera col riso che usa dalla mie parti, ciambelle e altri dolci di varia foggia. Mentre già pregustavo tutto quel ben di dio e baldanzoso mi ero avvicinato al tavolo, in modo perentorio mi venne detto che non si mangiava niente fino al giorno di Pasqua.
Fui felice lo stesso quel giorno...
Lo fui di più la domenica successiva , oltre a risorgere il “Salvatore”…………. risorsero le sue papille!!!!!!!


Pastiera



Un po’ di storia

Le case, le strade, tutto a Napoli odora di pastiera nei giorni tra giovedì e venerdì santo: un odore caldo, dolce e fruttato che nasce dall'acqua di fior d'arancio e dagli ingredienti sapientemente mescolati.
La pastiera era, spero tutt'ora lo sia, oggetto di scambio tra le famiglie, una sorta di regalo pasquale: ogni famiglia si adoperava a prepararne più di una, coinvolgendo nella fatica tutti i componenti.
Come ogni cibo che nasce e si diffonde con la tradizione, leggende , aneddoti , e storie piu’ o meno plausibili se ne contano numerose.
La più antica leggenda a cui far risalire la “pastiera” è la mitologica storia della sirena Partenope.
Incantata dalla bellezza del golfo disteso tra Posillipo e il Vesuvio, la bella sirena decise qui di fissare la sua dimora. Ogni primavera emergeva dalle acque azzurre per salutare le genti felici che nel golfo dimoravano, incantandole e allietandole con canti d’amore e di gioia.
Tale fu dolce e melodioso il suo canto che tutti gli abitanti affascinati e rapiti da tale voce, vollero tributarle un grande riconoscimento, offrendogli quanto di più prezioso avessero.
Sette fanciulle ,tra le più belle dei villaggi, consegnarono i doni alla bella Partenope: la farina, forza e ricchezza della campagna; la ricotta , omaggio dei pastori ; le uova, simbolo della vita che si rinnova; il grano tenero, bollito nel latte, simbiosi dei due regni della natura; l’acqua dei fiori d’arancio , profumi della terra; le spezie, in rappresentanza dei popoli più lontani; infine il miele , per simboleggiare l’ineguagliabile dolcezza del canto di Partenope profuso in cielo in terra in tutto l’universo.
La sirena felice per tanti doni, si inabissò per far ritorno alla sua dimora ; depose le preziose offerte ai piedi degli dei. Anch’essi inebriati dal soave canto della sirena , mescolarono con divina arte tutti gli ingredienti, trasformandoli nella “Pastiera” che superava in dolcezza e soavità il canto stesso di Partenope.
E’ più probabile che il primo abbozzo di Pastiera sia un tipo di pane che veniva fatto per le nozze dei patrizi romani, il "confarratio”, un composto di farro e ricotta
Questo “panen”, oltre che usato nelle nozze romane, veniva portato in omaggio anche alla dea Cerere, insieme delle uova ( simbolo di fertilità) , durante le festività in suo onore , nei festeggiamenti per il ritorno della primavera, periodo corrispondente, più o meno all’attuale Pasqua.
Cerere, figlia del titano Crono e di Rea, veniva considerata nella mitologia greca la dea del grano e dei raccolti.

Un aneddoto singolare e curioso è quello in cui si narra di Maria Teresa D'Austria, consorte del re Ferdinando II di Borbone, soprannominata dai soldati e sudditi "la Regina che non sorride mai".
Si dice che dopo aver assaggiato una fetta di pastiera non poté far a meno di sorridere. Pare che a questo punto il Re, che aveva nomea di burlone, esclamasse: "Per far sorridere mia moglie ci voleva la Pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo".

Storia più plausibile, narra di un’ignota suora che, in un ameno convento, volle creare un dolce che simboleggiasse la Resurrezione .
Alla candida ricotta, simbolo della purezza, aggiunse una manciata di grano che, sepolto nella bruma terra, germoglia e risorge splendente e biondo come oro; aggiunse le uova, da sempre simbolo della vita che si rinnova ; l’acqua dei mille fiori d’arancio odorosa e prorompente come la primavera;il cedro e le spezie venute da terre lontane.
E’ dato certo che le suore dell’antichissimo convento di San Gregorio Armeno, avevano nomea di grande maestria nella complessa manipolazione degli ingredienti che rendono la Pastiera così unica.
Si racconta che nel periodo pasquale ne confezionassero grandi quantità per i convivi nelle patrizie dimore della ricca borghesia prima che, tutto ciò, diventasse consuetudine popolare.


Concludendo.
Di pastiere in Campania ce ne sono tantissime versioni , dall'aggiunta di crema pasticciera nella Costiera Amalfitana, a quella di riso nel Beneventano e Avellinese, a quella con i tagliolini che si prepara invece nel Nolano, recentemente si è aggiunto, per i più golosi,anche il cioccolato.
Diciamo che ci sono, due scuole di pensiero: la più antica, insegna a mescolare alla ricotta semplici uova sbattute.
La seconda, innovatrice, raccomanda di mescolarvi una densa crema pasticciera che la rende più leggera e morbida, innovazione dovuta al lattaio-pasticciere Starace titolare di una bottega in Piazza Municipio, oggi dismessa. Si dice, anche, che la pastiera con la crema abbia avuto origine nella Penisola Sorrentina, specialmente ad Amalfi, dove è più diffusa.


A Napoli non c’è famiglia che non sia depositaria della migliore e “origginale” ricetta della pastiera,
Per cui facendo un rapido calcolo dovrebbero esserci piu’ di 4 milioni di ricette.
Io mi limito a suggerivi la mitica ricetta di “ Zi’ Maria ‘e napul’ ” (per distinguerla da altre zie con lo stesso nome).


Ingredienti

Ripieno

Ricotta (l’ideale e quella di pecora a vs piacimento vaccina o bufala)
Grano (già ammollato in acqua) ½ Kg (si trova nei supermercati in barattoli)
Zucchero 900gr
Cedro e “cocozzata” canditi (o frutta mista candita a quadrettino) 250 gr
Acqua di millefiori o fiori d’arancio 3 o 4cucchiai (in mancanza 2 fialette di estratto di mille fiori o fiori di arancio)
Latte (per il grano) ½ litro
Uova 10
Vanillina 3 bustine

Pasta frolla

Farina 1Kg
Zucchero 400 gr
Sugna (o burro non industriale) 500 gr
Uova 8 (solo tuorli)
Sale 2 pizzichi
Buccia grattugiata di ½ limone

Crema (per chi la preferisce)

Latte ½ litro
Uova (tuorli) 4
Farina 2 cucchiai abbondanti
Zucchero 4 cucchiai abbondanti
Buccia di limone grattugiato

Nota: Queste sono dosi per almeno 2 pastiere, secondo la grandezza del "ruoto”
Potete fare le proporzioni a secondo delle vs. esigenze.


impasto pastieraProcedimento

Preparare la pasta frolla e metterla a riposare

In un capiente pentolino versare il grano e aggiungere il latte insieme ad una busta di vainiglia, una noce di burro un pizzico di sale e un cucchiaio da te di zucchero.
Far bollire a fuoco lento finche’ non diventa una crema densa e consistente.
Setacciare la ricotta aggiungendo lo zucchero i tuorli d’uovo e il bianco delle uova che avrete precedentemente montato a neve.
Aggiungere la frutta candita, le buste di vainiglia, l’acqua di millefiori, il grano e amalgamare il tutto energicamente con una frusta. Chi desidera puo’ aggiungere la crema pasticciera: in questo caso diminuire la dose di zucchero del 10/20 %. ca.
Con la pasta frolla, dopo averla spianata con il matterello, foderare una teglia capiente (circa 30 cm ) precedentemente imburrata, versare l’impasto, decorare a vostro piacere con striscioline di pasta frolla.
Infornare a 180-200 gradi per 45 min-1 ora, a seconda del forno.
Lasciare raffreddare la pastiera, non in frigorifero per carita’! Spolverare se gradite con zucchero a velo. Attenzione che la pastiera, se fatta come si deve, è difficile da sformare, rischia di andare in briciole.
Per cui si consiglia di servirla nel "ruoto" di cottura. Oggi in commercio sono facilmente reperibili dei “ruoti” in alluminio usa e getta (anzi ricicla) adatti alla bisogna.

PastieraRecioto di Soave


Si puo’ abbinare la “Pastiera” con un “Recioto Di Soave” dal colore dorato con toni caldi, quasi ambrati, bouquet delicato di frutti esotici, persistente e ruffiano al palato .
Molto bene si accompagna anche un liquore al gusto d’arancia come “Grand Marnier” o “Martell”.


Buona Pasqua

Vostro Servitor

SALVO DE ROCAS





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I profumi del vicolo… Il ragù alla genovese.


I profumi del vicolo… Il ragù alla genovese.

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 3110  
campanileE’ piena estate, fa caldo, il tentativo di dormire in un'afosa notte agostana è interrotto dal ferreo suono del maestoso campanile che sovrasta la piazza vuota.
Con sei rintocchi mi avverte che non è " l'ora dell'amore" che l’alba è spuntata .
Mi affaccio alla finestra: il vicolo è pervaso da un turbine di profumi che lievi salgono a sollecitare le mie narici, distinguo il suadente aroma di burro e vaniglia delle brioches appena sfornate dal barista, per rifocillare i primi avventori.
Mentre questo aroma etereo svanisce, un profumo più intenso e complesso
sale……sale……sale,…………
… le mie narici sussultano, il mio cuore anche , lo riconosco è il profumo di certe domeniche della mia infanzia, è il profumo invadente del “ragu’ alla genovese”, che mia suocera sta facendo "pippiare" a fuoco lento; lo farà per molte ore ancora.
Penso, felice come un bimbo rallegrato da un dono, che sarà una domenica interessante dal punto di vista culinario.
Un’ansia irrefrenabile mi pervade, devo far partecipi altri di questa emozionante sensazione : mando un SMS all'amico Carlo con il quale cerco, come tento ora di fare con voi, di condividere queste sconvolgenti emozioni che mi riconciliano con il quotidiano della vita.


Il Ragu’ alla genovese
Ragù alla genoveseQuesto sugo è chiamato “alla genovese”, perché pare sia stato preparato per la prima volta alla fine del 1400 da certi cuochi genovesi che aprirono una taverna a Napoli alla Loggia di Genova, zona a ridosso del porto, dove la colonia genovese, di stanza a Napoli, si amministrava autonomamente.
Alcuni raccontano che osti genovesi, stabilitisi a Napoli nel 1600 , avevano l’abitudine di cucinare la carne in questo modo, altri affermano che a dare il nome a questo piatto fu un cuoco di nome Genovese.
Tipico piatto della tradizione napoletana, nulla ha a che vedere con la città della Lanterna : viene menzionato da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino nobile napoletano con l'hobby della cucina, nella sua opera “Cucina teorico pratica” pubblicata nel 1837; in verita' prima di lui ne parla Vincenzo Corrado, nell’opera “Cucina Napoletana" nella prima edizione del 1832.
Se non è dato di sapere con certezza la paternità e l’origine dell’aggettivo “genovese” di questo piatto , certa era la consuetudine dei genovesi di cucinare, nella pentola di terracotta, con sughi vari “u tuccu”; un pezzo intero di carne, per poi separarlo e farne un ottimo secondo.
Pratica in verità usuale in molte altre regioni italiane, allora come oggi.
L’immensa e variegata tradizione culinaria napoletana nata per le continue interferenze , a volte sinergie, tra i fasti della cucina aristocratica delle numerose dinastie che si sono succedute e di quella più semplice e genuina della classi popolari, mi fanno supporre, con sufficiente sicurezza che, l’inventiva e la capacità di rielaborare dei napoletani, abbia accomunato la nobile carne alla più povera cipolla per creare questo succulento piatto, successivamente abbinato alla pasta.
- La pasta di grano duro da Napoli, sin dal 1833 (costruzione del primo stabilimento ), si diffuse su scala internazionale in tutto il mondo; facendo assumere ai napoletani la nomea di “mangia maccheroni” perdendo definitivamente quella di “mangia verdure" che sino allora li aveva contraddistinti.
- La cipolla, base di questo piatto, è uno degli ortaggi più antichi presenti nell' alimentazione dell’uomo;è raffigurata spesso anche negli affreschi delle tombe egizie (sempre loro).
Nei secoli scorsi la cipolla era tenuta nella massima considerazione, attribuendole virtù terapeutiche.
La scienza odierna ha ridimensionato l’importanza nutritiva della cipolla riconoscendogli solamente una lieve azione diuretica.
La cipolla contiene piccole dosi (0,05%) di un’essenza volatile irritante per gli occhi dal sapore acre e piccante, costituita principalmente da solfuro di allile-propile.
Per evitare questo inconveniente basta mondare l’ortaggio tenendolo immerso in una bacinella piena d’acqua fresca.
- Il tipo di carne più adatto per questa preparazione è il girello che a Napoli e' chiamano "lacierto" o in mancanza di questo, lo scamone o culaccio che, per i napoletani è il "primo taglio" .
Si può preparare anche con altri tipi di taglio meno nobili come il muscoletto o la parte magra del reale. Altre tipologie di carni si possono preparare con questo sistema per esempio io la preparo con il coniglio.
"'A Genovese” richiede molto tempo , dedizione e passione per la cucina.
Il sugo deve “pippiare” per molte ore, altrimenti come diceva Eduardo, non facciamo il ragù ma "a carna cu’ 'a pummarola", nella fattispecie "cu’ ‘a cipoll’ ".


Preparazione e ingredienti.

Non e' facile dare il quantitativo giusto degli ingredienti per questo tipo di piatto, vi darò quello che usava mia madre e che "donna Enrichetta", mia moglie, sapientemente ha elaborato e reso sublime.

Dosi per 4/6 persone
Carne, del tipo sopra descritto , 700/800 gr
Cipolla di Tropea 1,5 Kg
Sedano bianco , 1 Gambo
Carote 1 grossa
Vino bianco secco 2 bicchieri abbondanti
Pepe nero poco
Sale marino alla bisogna
Olio extra vergine 1dl ca.



Mondare le cipolle e tagliatele finemente ( è importante), servirsi eventualmente di un'affettacipolle.
Poichè questa operazione è difficoltosa per ovvie ragioni, è possibile tagliare grossolanamente le cipolle per poi passarle al setaccio manuale (niente minipimer o robot) una volta appassite in pentola (in napoletano "ammortute").
Preparare un trito con sedano e carote.
In un "tiano" di terracotta - se non lo possedete, in tempi moderni va bene anche una pentola antiaderente- fate rosolare il trito con le cipolle dopo un po' aggiungete la carne facendola rosolare e sfumare col vino bianco (questo è il momento dell'eventuale setaccio manuale) .
Ponete il tutto a fuoco lento, aggiungere un po' d'acqua , se avete del brodo di carne è meglio.
A pentola coperta lasciatelo "pippiare" fin quando la cipolla non sarà consumata completamente.
Durante questa fase bisogna evitare che la carne e le cipolle attacchino girando e aggiungendo acqua o brodo fin quando la carne non sarà cotta e le cipolle avranno raggiunto un colore ambrato con la consistenza di una crema vellutata.
Il tutto durerà almeno tre ore.


* La pasta con cui sposare tale ragù deve essere liscia: candele (tagliate rigorosamente in quattro parti), zitoni, paccheri o rigatoni. Se ve la potete permettere la pasta di "Gragnano" è il massimo.
Una volta condita la pasta, indispensabilmente al dente, spolverare con parmiggiano o pecorino, quest'ultimo da me preferito.
* La carne si mangia come secondo con contorno d'insalata di stagione con rucola e scaglie di parmiggiano o pecorino, condita con olio e succo di limone : il limone detergerà il vostro palato preparando le papille al boccone successivo.
* Importante bere il vino, che accompagnerete, tra un boccone di pasta e l'altro, evitate di bere dopo aver imboccato l' insalata, pregiudicherebbe la degustazione del vino.
Il tutto si può accompagnare con un buon bianco campano "Pallagrello bianco" delle terre del Volturno o "Falanghina" del Sannio.

Pallagrello biancoFalanghina



Buon appetito dal vostro Salvo De Rocas



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EDITORIALE : L'ILLUSIONE E IL DISINCANTO


EDITORIALE : L'ILLUSIONE E IL DISINCANTO

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 2088  
Ieri ho accompagnato mia figlia alla stazione. L'ha invitata un'amica di Torino con cui andrà ad una festa. Se lo merita, il regalo, ha superato a pieni voti un importante esame universitario, dunque ho accordato il permesso. Giusto? Come no, giustissimo, mia figlia ha venti anni, la vita sua non è più esclusivamente mia, cosa eccepire ? niente, il gran resto di niente, anche se ...non so, magari… insomma, anche se la situazione vissuta aspettando il treno da Milano vestiva panni surreali, un frullato di percezioni che stento a ordinare. Le metterò in fila, queste percezioni, così come affiorano alla mente, e sono certo che in un modo o l'altro mi piglieranno per mano e sbocceranno a un fine. Lo so, già me ne accorgo mentre scrivo, si disporranno come perle, o forse minuscoli diamanti, o ancora luccichini, in ogni caso formando una collana di pensieri conseguenti.

Dunque, innanzitutto Torino, poi mia figlia, poi un treno che va, e infine un sentimento, la sensazione del distacco, quasi che un po’ di me si replichi dentro lei e per suo tramite riviva una partenza, che so, un addio, lo stesso di quando lo presi anch'io un treno, in una sera calda e inzuppata d'acqua, salutando da un finestrino sporco un panorama di ombre, luci febbrili e di edifici lontani. Che dicevo? ah, la collana. Questa collana brilla, riverbera bagliori, illumina una ragazza che va via, neghittosa, mentre trascina dietro sé una valigia a ruote. Bella, è bella la mia figlia, e non lo dico perchè sono suo padre, sarei un meschino. Lo affermo con un pizzico di angoscia, la stessa che ho provato osservandola da lontano, di quando il disincanto ha spazzato l'illusione e allora ho visto, l'ho finalmente guardata come lei pretende si faccia : una donna, mia figlia, questo era agli occhi miei, nient’altro che una donna. La rivedo, adesso, ricordo bene quegli istanti, mentre cammina senza ancheggi, muove con accorta pigrizia il compasso lieve delle gambe. Cos'altro vedo? Certo, una matassa di capelli, lunghi, arricciolati da uno dei due versi, uno solo. La vedo, la inseguo con lo sguardo, e mentre osservo io lo so, capisco si allontana, col passo indolente e tuttavia sicuro e un pizzico ingobbita dal trascinare. La seguo, la fisso stupefatto, e ne ammiro le spalle, le stesse che mi ha dato dopo il bacio di rito.
Quando hai una figlia di vent’anni le occasioni per parlare e capire, sentire, assorbire, non sono molte, dicevo, specie se è impegnata nelle sfide sue e quelle spalle te le ha già voltate. Non per disamore, questo no, ma solo perchè ansiosa di orizzonti, di guardare avanti, né più e né meno come faceva alla stazione. Ieri guardava il treno per Torino, da qualche anno quello della vita. Mentre si era in auto, e si esprimeva in un accento padano così impeccabile da spingermi all’irritazione (può la gelosia, l'angoscia da distacco, portare a tutto questo?) mentre discorrevamo, a un tratto ho chiesto: " Ma tu, con i tuoi amici, non fai nulla per rivelare le tue origini napoletane?" "Non posso - ha risposto al nulla - e non mi puoi capire. Già il cognome è un manifesto, figurati se parlassi un po' diverso".
Ciao, oggi sarai a Torino, a quella festa ci saranno questo e quello, mi racconti, e mentre fingi e dici ‘uffa, sai che gente con la puzza al naso?', gli occhi ti brillano per il dannato treno che abbiamo preso tutti e due. Tu per la festa della vita, io per tornare alla mia, la festa di un luogo della mente che abbandonai in una sera d'acqua. Ciao, Napoli non più mia. E forza, tanta forza per questo vecchio cuore tuo.

Carlo Capone


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L'amico “FRIARIELLO”


L'amico “FRIARIELLO”

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 4263  
L'amico “FRIARIELLO”

Friarielli


Si nu' ruoccolo, na cima e rapa!

Non sempre quest'affermazione è sinonimo di persona con scarsa personalità , poco considerata o con vacuità d'intenti.
Tutt'altro, a Napoli l'ingegno e l'inventiva dei suoi abitanti ha elevato questo semplice ortaggio , detto per l'appunto friariello, da prodotto tradizionale e tipicamente locale, a patrimonio culinario, da esportare in tutto il mondo, come la pizza.
L'unicità e napoletanità del "friariello" è data dal fatto che, già a pochissimi chilometri di distanza e nel resto della regione, il friariello è un piatto composto da un piccolo peperone dolce e verde, fritto in olio d'oliva che nulla ha a che vedere col friariello in questione.
Non è dato di sapere quando è comparso esattamente il friariello a Napoli.
Nonostante il tanto celebratissimo mare , tempo addietro i napoletani erano "campagnuoli" dediti alla coltivazione e uso di quest'ortaggio . L'inizio del secolo scorso vede la città ricca di orti e terrazzamenti coltivati e degradanti per le colline di Posillipo e del Vomero ; sono ancora parecchi i giardini e orti riusciti a sopravvivere all'assedio delle mani di cemento , mani devastanti che tuttora profanano la città.
Ricordiamoci che prima di essere chiamati "mangiamaccheroni" o "mangiapizza" i napoletani erano chiamati "mangiafoglia", per la loro preferenza di cibarsi di verdura cotta o cruda che fosse.
Secondo nuove fonti e ritrovamenti più recenti pare che in certi geroglifici egiziani, (sempre loro) tra le mani del faraone , sia rappresentato non lo scettro, come erroneamente creduto, ma la rappresentazione stilizzata e allegorica di un ortaggio simile al friariello.
Altre fonti antiche, a riprova di ciò, raccontano che dalle terre delle Piramidi fu Marco Antonio a portare a Roma tale ortaggio, nel corso di una delle tante e cruente campagne militari, prima di perdersi tra le braccia di Cleopatra (chiamalo fesso). A quell'epoca e' risaputo che uomini e donne importanti, tendevano ad identificarsi, molto più di oggi, con il mondo faunistico e vegetale, esprimendo così in maniera simbolica le loro affinità .
Apicio, gastronomo e scrittore, nel trattato "De re coquinaria" riguardo la cucina dell'antica Roma, esalta la bonta' del friariello e lo pone, nelle preferenze dei Romani, subito dopo i fegatelli e il garum, una particolare salsa di pesce, scrivendo testualmente: “post friariellum stabit, post coenam deambulabit", dopo aver mangiato i friarielli.... riposa ( la pennichella), dopo la cena passeggia.
Tale raccomandazione fu fatta propria, più tardi nel Medioevo, dalla Scuola Salernitana di Medicina, come corretto stile di vita e regola di sana alimentazione. Mettendo in guardia dall'indigestione cui si va incontro mangiando troppi friarielli.
Il friariello napoletano dunque è un ortaggio simile alle cime di rape, un broccoletto insomma, con delle infiorescenze appena accennate che la maestria culinaria indigena, abbinandolo alle salcicce lo trasforma in sua maestà il "Friariello".

Friarielli


La scelta

Viene coltivato da novembre ad aprile , raccolto al momento giusto e confezionato in piccoli fasci.
Bisogna saperlo scegliere se non avete il vostro "verdummaro" di fiducia : i fiori ci devono essere già ,ma non devono essere aperti, non troppo fioriti, le foglie non devono essere troppo grandi e ingiallite, devono essere tenere.
Al tatto devono essere duri , non mosci, di un verde intenso, spezzandoli si deve sentire il rumore.


Preparazione

Una volta scelti vanno "ammonnati" cioè puliti, vanno tolte le foglie più grandi e ingiallite ,va recisa la parte stopposa del gambo, lavati con acqua abbondante e sgocciolati bene.
Nel frattempo in una padella avete messo a rosolare, in olio d'oliva extravergine , "na cap' r'agl'", un aglio con un po' di peperoncino.
Quando l'aglio e dorato, buttate i Friarielli (e' preferibile non bollirli, perderebbero sapore ) coprite con coperchio, abbassate la fiamma e cuocete per alcuni minuti.
Togliete dal fuoco quando l 'ortaggio e' ancora consistente, una cottura prolungata porterebbe alla perdita di alcune proprietà organolettiche, come quel particolare retrogusto amarognolo.
Si possono accompagnare con scamorza cotta alla brace, mozzarella di bufala naturalmente, e con la classica provola napoletana. Ve li consiglio accompagnati con caciocavallo di Montella di media stagionatura passato alla brace o sulla piastra, una vera festa per il palato.
Ma ciò che li rende sublimi è il matrimonio con le salcicce che vanno rosolate separatamente e ultimata la cottura nei friarielli precedentemente preparati ; il tutto in un abbraccio di profumi e sapori , un trionfo per il nostro palato.
Saper cucinare i friarielli è una vera prova di napoletanità, a mio avviso, molto più di saper fare un babà , una sfogliatella o una pizza; quest'ultimi hanno trovato sapienti divulgatori e capaci interpreti nel mondo, ma "Lui" ancora no , forse per la scarsa reperibilità fuori dal luogo.
Ma voglio pensare che, da prodotto di nicchia , molto amato a Napoli, si diffonderà grazie all'amore di chi ama la tradizione e la cultura della propria terra.
Altri popoli potranno cosi' apprezzare tale bontà sinora sconosciuta. " Sua maestà " si abbinerà alle cose più disparate , qualche sconsiderato proporrà matrimoni alquanto improbabili con cathciup o hanburger (mammamia!!!). Sperando che nasca , nel contempo, una Dop o un disciplinare, come per la pizza, che ne salvaguardi l'originalità e la tipicità.
I mezzi non mancano , io stesso ne sto adoperando uno efficacissimo, Internet.

Salsicce e Friarielli


Salcicce e Friarielli si possono accompagnare con un vino rosso vivace, il "GRAGNANO" ad esempio, un vino delle cui bollicine il grande Toto' soleva dire: " se pizzica lo prendi se non pizzica lassa sta' ".

Nel gergo popolare la parola friariello può identificare tanto una persona appiccicosa e untuosa, quanto una persona squisita, spiritosa e piena di verve come l'amico “Friariello" che ha ispirato e al quale dedico questa “fatica”.


Salvatore Mordenti alias SALVO DE ROCAS





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SPAZIO SCRITTURA : AUSTERLIZ - Racconto di Carlo Capone


SPAZIO SCRITTURA : AUSTERLIZ - Racconto di Carlo Capone

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 1433  
Ha gelato, stanotte. Me ne sono accorto quando sono uscito a pisciare. “Givarch!”, mi ha gridato qualcuno da dietro, “ti è andato in fumo l’uccello?”.
Mi sono storto e ho visto Galimier. Sporgeva con il capo dai lembi della tenda, senza quegli stracci in cui l’avvolge la notte a mo’ di paraorecchi. Non lo sopporto quell’uomo, per i seguenti motivi. Primo: ce l’ha più lungo del mio, secondo: a causa dell’umorismo idiota, tipico dei meridionali. Questa mattina però aveva ragione, il calore del piscio aveva sciolto la crosta di brina. Dal piccolo buco nell’erba si alzavano ciuffi di vapore che sembravano fumo.

Prima di rientrare – Galimier, lo sapevo già, mi avrebbe raccontato di quante marsigliesi s’era scopato in sogno – mi sono fermato a guardare. E non ho visto niente. Ieri sera gli ufficiali ci hanno spiegato che siamo a ovest di un fiume. Ci hanno anche detto che oltre gli stagni di fronte è accampato il nemico. Era buio, e in più avevamo da montare i bivacchi. Stamattina, dicevo, ho voluto controllare: insieme all’uccello era andato in fumo anche il lago. La coltre di nebbia, ostile e vischiosa, lasciava appena intuire un’immensa spianata di ghiaccio.
Anche Galimier mi ha sorpreso. Mi aspettavo di ritrovarlo a cuccia. Di solito, a prescindere se il bivacco è al chiuso o all’aperto, occorre la frusta di un caporale per spingerlo ad alzarsi. Questa volta no. Era ritto, vicino alla catasta di fucili, infagottato nel pastrano di Morgaix che, dio l’abbia in gloria, era il doppio di lui. Parlo così perché quel fesso di Morgaix – e come potrebbe non esserlo uno di Rouen?- s’è fatto beccare in quello stupido agguato in Baviera. La pattuglia di austriaci ci ha sorpreso durante la perlustrazione di un bosco. Hanno sparato all’impazzata, neanche fossimo in cento. Secondo me s’erano cagati addosso, come e più di noi. Basta, io e Galimier siamo riusciti a sganciarci, correndo carponi tra le felci. Morgaix invece è rimasto impietrito, continuava a fissarli, come fosse sicuro che non l’avrebbero preso. Scappa, per dio, scappa!, ho urlato, mentre insieme a Galimier me la davo a gambe. La nuova raffica mi ha coperto la voce. Allora mi sono liberato dello zaino e ho iniziato a correre a perdifiato. Galimier non si era neppure degnato di aspettare, appena l’ho raggiunto al sicuro ha fatto un cenno al boschetto e detto "Nuovo quel pastrano". La sera stessa c’è tornato e se l’è preso.
Dunque, ero a pochi passi dalla catasta di fucili quando Galimier ne ha afferrato uno e mi ha chiamato alla sua maniera “Givarch!”
Non so, sarà un’impressione, un’eco interna per via della disparità di uccello, ma se pronuncia il mio cognome, squarciando l’aria come intendesse ruttare, ho sempre il sospetto che ci sputi sopra. Givarch!, e quell’onda sguaiata mi sale su in testa, un impulso assassino la scompone in fette, per poi mutarla in qualcosa del tipo: ‘ce l’hai troppo piccolo’.
Prima che attaccasse con l’elenco delle troie, ho voluto prevenirlo. “Quante te ne sei scopate stanotte?”
Gli è comparso il solito ghigno da idiota, ancora più ironico per via del copricapo calzato di traverso e del sottomento slacciato.
“Mi gioco la pipa che non ci crederai”.
“A cosa, non devo credere?”
Ha fatto il gesto di fissare la fibbia e poi s’è fermato:
“Ho sognato le tue oche”.
Dovete sapere che per mestiere faccio l’allevatore di quei pennuti. Le cresco, le ingrasso e le vendo. In guerra è così, c’è chi sogna le troie, chi altro la moglie e chi un letto caldo. Io penso solo al mio commercio di oche in Bretagna. C’è da fare soldi, molti soldi, ci credo davvero, nonostante quel porco di Morignon me le paghi sei franchi la coppia. Il giorno che vennero i soldati a prendermi - l’Armata si era adunata a Boulogne, cioè non molto distante da Rennes, dove ho la fattoria – quando si presentarono, dicevo, ho cercato di spiegare, a un certo punto ho anche sbattuto il berretto per terra. Malgrado sia in età di ferma credevo di esserne esente: vivo da solo con mia madre e sono orfano di guerra. Mio padre l’ho perso nel 97, quando avevo 13 anni, di lui conservo la medaglia di eroe della campagna di Italia. Niente, non c'è stato verso, non è servito a nulla spiegare che il commercio va a farsi fottere, se non ci sono io, e che mia madre, da quando è morto il marito, si è incitrullita e vede i folletti.
Il nostro Imperatore pensa solo alla gloria, ma io agli incitamenti degli ufficiali non ci credo mai. “Cittadini, le vostre bisacce, gli zaini, le giberne, recano un seme! il germe di pace, giustizia e libertà che il nemico disprezza”. Sì, giustizia e libertà, ma chi ci pensa alle mie oche, tu, cittadino capitano? Oppure tu, signor Bonaparte? Siete proprio sicuri, davvero pensate che Lucien Givarch, di mestiere allevatore, creda alle vostre frottole? Come fanno questi idioti imbottiti di rhum prima di combattere?
Pensavo alle oche, e alla fandonia delle giberne, ma anche a Galimier e alle sue insinuazioni, mentre discendevamo il pendio. Al mio reggimento era stato ordinato di manovrare a sinistra, con lo scopo di investire il nemico sul fianco, a est dello stagno. Procedevamo a ranghi serrati, i fucili in resta e due colpi in canna. Davanti a me, a pochi passi, avanzava fiero il rotto in culo del tamburino – non posso farci niente, è più forte di me, se gli guardo le chiappe penso sempre che lo prenda da tutti. Dunque, si è piazzato sulla mia prospettiva, in linea col portabandiera, insomma nel punto giusto per farmi beccare. Allora ho alzato il capo, evitando di guardare ai compagni che cadevano a grappoli. Se ti volti e guardi – veramente, ci credo sul serio - la prossima palla è la tua. Ho fissato il cielo, dicevo, e a sorpresa, dopo mesi di grigio, ho visto il sole. Cristo, ha funzionato come cento razioni di rhum scolate in un sorso. Il guaio è che il rhum l’hanno preso anche i russi. Abbandonate le postazioni, si sono buttati in avanti, con urla disumane di bestie impazzite. Ma non è tutto. In quel momento la nostra artiglieria ha aperto il fuoco, mirando, insieme ai raggi del sole, al lago di ghiaccio.
E’ stato il punto di maggior confusione, la stessa che provo quando bevo e non so più chi sono. C’era fumo, odore di sparo, e puzza di merda. I lanci di granata e i colpi di mitraglia mi passavano sulla testa. Ho iniziato a correre, insieme ai compagni, fottendomene dei colpi. Giù in basso lo stagno di Monitz era andato in frantumi, un misto di ghiaccio, cavalli e carne cristiana.
A un tratto sono inciampato, ho battuto la fronte. La botta è stata così forte che ho perso i sensi. Quando ho aperto gli occhi ho portato la mano al viso. Ero ancora bocconi e mi colava sangue dal naso. Allora mi sono girato e ho visto i corpi: sbudellati, fatti a pezzi, squarciati. Inerti come statue di ghiaccio.
Di tutto mi si può accusare, ma non di codardia. Rialzatomi, ho ripreso ad avanzare. C’era il tamburo alcuni passi avanti, il ragazzo vi giaceva riverso, le braccia penzoloni. Più in là, immobile al sole, c’era anche Galimier, disteso supino. “François”, ho chiamato, ma lui niente. Mi sono avvicinato, per capire se era morto, e non ho visto ferite. “Galimier!”, ho richiamato, ma più forte. Lentamente, dopo essersi assicurato che ero io, ha riaperto gli occhi e si è prodotto nel solito ghigno. “T’hanno preso all’uccello, Givarch?”
Si riferiva al sangue dal naso, che mi aveva imbrattato anche il ventre.
Credo fosse il 93, no, l’anno prima, insomma ero poco più di un bamboccio. Una domenica mio padre mi fece vestire con l’abito buono e mi ordinò di seguirlo. Per strada gli chiesi dove fossimo diretti. Era un giacobino, di certo non andavamo alla messa. “Conosci il signore di Morbillan?”, mi disse. Intanto eravamo arrivati nel largo oltre il fiume, ma quel giorno non vidi né il venditore di pozioni né l’uomo sui trampoli. C’era folla, questo sì, come fosse mercato, ma tutti premevano in direzione di un palco, al centro della piazza. Mio padre mi spiegò che il Comitato era a corto di soldi, insomma non avevano la ghigliottina. Non capii, anche perché - adesso gli sedevo a cavalcioni sulle spalle - ero attratto dalla figura del signore di Morbillan. Saliva la scaletta del palco con aria di sprezzo, la stessa di quando passava in cocchio davanti alla cascina. Un gradino, la sosta per scrutare il cielo, e poi l’altro. Ma non fu l’incedere a impressionarmi. La capigliatura, piuttosto, scura e fluente; non gliel’avevo mai vista, per via della parrucca incipriata. La camicia, infine. Ne indossava una di lino, finissima, ridotta a brandelli. Qualcuno ne aveva strappato la fila di bottoni.
Appena fu sopra, un bestione con un porro sulla guancia lo afferrò per la collottola, come fosse un coniglio. Quindi, costrettolo per il collo su un ceppo di quercia, estrasse il coltello e gli tagliò la gola. Prima da sotto, tirandogli il mento all’indietro, poi, visto che era un tanghero di macellaio e il signore di Morbillan non si decideva a crepare, adoperando un seghetto. Proprio così, gli troncò i tendini, il pomo e il gargarozzo. Quando fu la volta della nuca, si rese conto che il seghetto non bastava e cambiò attrezzo. Afferrata da una sacca l’accetta, quella buona per gli ossi da brodo, cominciò a menare tanti e tanti colpi che gli schizzi mi bagnarono la faccia. L’urlo della folla, finora ammutolita, accompagnò il gesto finale. Il boia sollevò per i capelli ciò che restava della testa del conte e la mostrò in trionfo.
Va a capire perché tutto questo mi sia tornato in mente proprio oggi, mentre Galimier mi guardava tra le gambe ridacchiando. So soltanto che ho sfilato la baionetta, mi sono avvicinato… e ho riso anch’io.

Carlo Capone © 2003



volume E... non è successo nientepubblicato nel volume "E... non è successo niente",
5° Concorso Letterario D come Donna
Prima Edizione, 2003
con il patrocinio di
città di Segrate e Regione Lombardia










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Novità in libreria - Antologia racconti


Novità in libreria - Antologia racconti

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 1676  
Da un mondo all'altro (Baldini & Castoldi - La Tartaruga) - copertinaDa un mondo all'altro
(Baldini & Castoldi - La Tartaruga),

Autore: Bruna Miorelli, Gianni Turchetta (Prefatore)
Data di uscita: 11/07/2006
Pagine: 272
Codice ISBN: 88-7738-448




E' in uscita in questi giorni Da un mondo all'altro (Baldini & Castoldi - La Tartaruga), antologia di nuovi autori curata di Bruna Miorelli e con prefazione critica di Gianni Turchetta, un volume che raccoglie ventotto racconti di altrettanti nuovi autori.
Fra questi compare La Disubbidienza, un mio racconto di qualche anno fa.
Questo il commento critico di Gianni Turchetta:

In una direzione molto marcata e molto consapevole, connotata da una percepibile volontà di provocazione letteraria ed etico-politica, si colloca Carlo Capone, con il suo La Disubbidienza: un titolo, del resto, che parla da solo. Capone sceglie senza mezzi termini la strada della narrazione lirico-simbolica, con risultati di elevata concentrazione semantica, non privi di originalità. L’energica opzione a favore dei significati metaforici si intreccia così con il dispiegamento programmatico di moduli iterativi (il riferimento a Vittorini è obbligato) e di simmetria sintattica, dove la spinta verso l'innalzamento stilistico è appena trattenuta dall'understatement comico, sulla linea dell'umorismo Pirandelliano. E a Pirandello fa pensare irresistibilmente anche la centralità del tema della follia: dove la follia si fa misura di una verità altra, e più profonda, rispetto alla sedicente normalità di chi si è lasciato inghiottire dal conformismo e dall’inautenticità. La Disubbidienza fa balenare un mondo caratterizzato dall’oppressione e dalla repressione: ma nella follia può aprirsi lo scarto che l’insidia, e che ci salva.


Scheda completa libro »
[collegamento al sito di Baldini Castoldi Dalai Editore]

Racconto La Disubbidienza »




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SPAZIO SCRITTURA : TENTATA VENDITA - Racconto di Claudio Bianchi


SPAZIO SCRITTURA : TENTATA VENDITA - Racconto di Claudio Bianchi

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 1739  
Milano, via E. Morosini, numero 19.
E. sarebbe il nome: maiuscolo e puntato. Starà per Emilio, penso, anche se la targa non lo specifica.
Emilio Morosini è un patriota seguace di Luciano Manara, ha lottato sulle barricate nelle Cinque Giornate di Milano, poi col battaglione dei bersaglieri lombardi in Piemonte e infine nella difesa della repubblica romana. Insomma, uno che stava sempre dove c'era da menare le mani.
Adesso, in via Morosini 19, c'è l'enoteca Solci, e non mi pare si possa trovare attinenza, a meno di pensare che E. Morosini fosse un tizio che, oltre a darsele di santa ragione per difendere tutte le cause nobili, gli piacesse anche di farsi qualche bicchiere di vino.
Io questo non lo so e non lo posso dire.
Nel 1962, in via Morosini 19, c'era la torrefazione del caffè Guarany e questo invece lo ricordo benissimo.

I Guarany sono una popolazione indigena del Paraguay che vive ai bordi del fiume Paranà (se ancora esistono). Tribù attive nell'allevamento di uccelli per l'arte plumaria e la coltivazione del cotone; agricoltori e antropofagi. Chissà se coltivano pure il caffè? Forse lo fanno perché, dopo avere mangiato i loro simili, hanno bisogno di digerire.
Il nome Guarany appariva sufficientemente esotico da richiamare alla mente la pianta del caffè e anche il sudamerica, dove tutti pensano, erroneamente, che la coltivazione del caffè abbia la sua origine. Lo aveva scelto il proprietario della torrefazione: il signor Caremoli, imparentato con la famiglia che produce la pasticca Golia: un bonbon che sta a metà del guado tra caramella e medicinale per la gola.
Io mi ricordo che da bambino ne avevo acquistato per cinquecento lire in una volta sola, e me ne avevano data una borsa intera. Una sporta piena di caccole nere e rotonde che mi piacevano da impazzire. Le cinquecento lire le avevo trovate per strada e ho subito pensato di spenderle, perché se le avessi portate a mia madre, lei se le sarebbe tenute per qualche altro utilizzo.
Quando ha visto la sacca con tutte quelle caramelle mi ha dato del matto, e io le ho raccontato che avevo vinto una gara di corsa all'oratorio. A dire il vero lei non ci ha mai creduto a questa storia, e questo fatto mi ha sempre amareggiato moltissimo, perché qualche difetto ce l'ho di sicuro, ma è altrettanto certo che non racconto bugie.
Quello che posso garantire è che nel 1962, a Milano, non era difficile trovare lavoro e io l'ho trovato alla torrefazione Guarany come responsabile per la tentata vendita.
Direttore commerciale era il signor Wigley, un personaggio di origini triestine dall'aspetto autorevole, intorno ai cinquantanni, con una pancia immensa e una poltrona comprata apposta per poterlo contenere, e due baffi altrettanto notevoli. Renzino, il magazziniere, arrivava da Saronno e in azienda era una persona molto importante (e ancora oggi non so spiegarmi la ragione); Renzo, che si chiamava come l'altro, ma senza diminutivo, s'interessava dei contratti con i bar e faceva da ispettore nei nostri confronti; mentre il sottoscritto e Aldo Aldi, eravamo stati assunti per vendere il caffè Guarany nei negozi al dettaglio. Ci toccava mezza città ciascuno e il direttore aveva tirato una riga con la matita rossa, in senso verticale, sopra una carta di Milano, con i limiti e i bordi indicati esattamente. A me competevano le zone più eleganti: via Manzoni, Montenapoleone, piazza S.Babila, corso Monforte, eccetera eccetera, sino all'aeroporto Forlanini.
"A te spetta fino a qua e dall'altra parte spetta a quell'altro. Samuele fa il centro perché è un tipo più raffinato" aveva precisato Wigley, dandomi subito la prima soddisfazione, e fornendo ad ognuno di noi due il suo pezzo di cartina.

Arrivavo tutte le mattine col tram 29, scendevo davanti al cinema Colosseo e facevo a piedi un tratto di corso XXII marzo. Avanti duecento metri, avrei potuto percorrere la strada con gli occhi bendati, lasciandomi guidare dalla fragranza che arrivava dalla torrefazione che già era all'opera per la tostatura del caffè.
Alle sette del mattino, io e Aldo, stavamo davanti alla saracinesca del 19 con i nostri furgoni Fiat Coriasco, pronti a caricare la stiva con le diverse qualità di caffè che conoscevamo soltanto attraverso i nomi riportati sopra i pacchetti da kilo: un sacchetto in carta colore argento, con la scritta Guarany in rosso, contornata d'oro.
Più sotto veniva precisata la miscela: c'erano il tipo Famiglia, Economica, Superiore, Extra Speciale e poi la Miscela Bar: la qualità migliore, e ovviamente, la più cara: 100% arabica, specificava l'etichetta, con quel tanto di pomposità nella grafica che la rendeva importante. Caffè in grani da vendere sfuso agli esercenti.
Allora molte botteghe alimentari tenevano davanti al banco una vetrina divisa in scomparti, con la qualità del prodotto indicata da un biglietto scritto a penna, in bella calligrafia, appiccicato sopra ogni vaschetta. Qualche negoziante comperava solamente la miscela meno costosa e la usava per tutte le sezioni.
"Tanto la gente non capisce un tubo" affermava ridendo, orgoglioso della sua furbizia.
Sul furgone c'era anche lo spazio per le confezioni sottovuoto da cento grammi e le lattine da due etti e mezzo, col marchio Guarany in bella evidenza, e i sacchi di iuta che contenevano caffè crudo da proporre alle torrefazioni private.
Io dividevo gli scomparti con dei cartoni e col pennarello nero segnavo i tre diversi reparti: caffè sfuso, caffè confezionato e caffè crudo. C'era anche lo spazio per qualche macinino che veniva concesso in comodato ai migliori clienti, che però dovevano firmare un contratto per ritirare un tot di caffè nel giro di un anno. Pagamento in contanti.
Prima di partire per la giornata, Fiorangela, l'aiutante di Renzino, ci preparava un caffè con la miscela appena tostata, macinata a mano. Quand'era estate la ragazza portava soltanto un grembiule azzurro coi bottoni in madreperla e ci porgeva la tazzina da sopra la ribalta.
"C'hai le mutande in tinta con lo spolverino" dicevo io guardandola da sotto in su.
"Domani le metto nere col reggicalze" mi rispondeva Fiorangela.
"Qualche volta potresti anche non metterle" ribattevo a mia volta.
Mezz'ora dopo le sette arrivava il dottor Caremoli con la sua Jaguar colore nero fumo, parcheggiava sul marciapiede in attesa che noi ce ne andassimo per entrare dentro al garage/magazzino che di lì a poco avremmo lasciato libero. Era un signore alto e magro dall'aspetto rigido e distinto, aveva un ciuffo di capelli biondi che gli cadevano davanti agli occhi e che spostava continuamente con un gesto nervoso, pieno di fastidio. Ci salutava dicendo "buonciorno" con la faccia sempre seria e un leggero accento tedesco. Saliva gli scalini che portavano all'ufficio e lo avremmo rivisto soltanto il giorno dopo. Una volta però si è bloccato di colpo in mezzo alle confezioni di caffè e ha fulminato Aldo Aldi che stava sbucciando un'arancia, con uno sguardo di fuoco.
"Non si deve manciare l'arancio dentro torrefazione." Si è messo ad urlare. "Caffè è igroscopico, umidità e odore possono rovinare miscela."
Io sono sicuro di avere visto le fiamme che uscivano dalle narici del dottor Caremoli e mi sono chiesto se igroscopico fosse un'offesa nei confronti del mio collega.
Aldo ha preso l'arancia e le sue bucce, se le è infilate in tasca, ed è sparito dalla circolazione per almeno un quarto d'ora. Quando è tornato lo aspettava il signor Wigley che ha aggiunto un risciacquo alla precedente lavata di capo.
Renzo, quello senza diminutivo, ci aveva consegnato l'elenco della clientela; mediamente ci toccavano circa quaranta visite al giorno, da ripetere con frequenze diverse in rapporto al consumo di ogni cliente. C'era dentro di tutto: salumerie drogherie panifici pasticcerie caramellai vinai torrefazioni, persino qualche privato: le case della nobiltà milanese. Una volta la settimana passavo dai Visconti di Modrone e mi riceveva un signore distinto che chiamavo marchese, poi lui mi ha detto di essere il guardarobiere: "Mi chiamo Matteo. E puoi darmi del tu se ti pare."
"Piacere Samuele. Preferisco darle del lei, non vorrei apparire scortese."
"Figurati, un ragazzo tanto carino non potrà mai essere sgarbato."
Ho continuato a dargli del lei che mi sembrava più elegante.
La prima settimana del mio lavoro Renzo mi aveva accompagnato per presentarmi alla clientela e poi ho dovuto arrangiarmi da solo.
Quando ho iniziato i giri non riuscivo a restare dentro ai tempi previsti, e a metà pomeriggio avevo coperto a malapena solo i turni del mattino. Per il ritardo che avevo sono uscito pieno d'ansia dal negozio di Gaboardi (specializzato in vini e liquori) e guidavo nervoso per arrivare alla drogheria Radrizzani collocata in viale Piave. In piazza Risorgimento ho visto l'immensa statua di S.Francesco che mi tendeva le braccia, mi sono commosso di fronte a quel segnale di comprensione e non ho saputo trattenere le lacrime.
Arrivavo davanti ai negozi che avevo sempre una grande premura, scendevo di corsa, entravo come una saetta, dava un'occhiata agli scaffali, uscivo a prendere la merce, rientravo e mettevo in ordine i ripiani con tutti i prodotti sistemati al loro posto.
"Fanno settemilasettecentoquaranta." Infilavo i soldi in tasca e ripartivo come un vapore.
Anche allora era difficile trovare parcheggio e piazzavo l'auto dove capitava, più di una volta sono riuscito a bloccare il passaggio del tram o l'uscita di un passo carraio, e abbastanza spesso ho trovato la multa sotto il parabrezza; poi, col tempo, i ghisa hanno imparato a conoscermi e cercavano di essere tolleranti. Ai più simpatici gli regalavo le lattine rosse con l'apertura a strappo e il coperchio salvaroma.

"Sfuso serve qualcosa?" domandavo a quelli che avevano la vetrinetta.
"Due di Famiglia, due di Superiore, uno di Miscela Bar…" i numeri sottintendevano chili.
Piombavo sul furgone a pescare nel reparto caffè sfuso, consegnavo l'ordine, scrivevo a mano la fattura, incassavo i contanti, e ripartivo immediatamente verso il prossimo nominativo. Non mi restava il tempo neppure per fiatare.
La figlia del droghiere Beretta di via Nino Bixio mi portava sempre in cantina per vedere se c'erano riserve di prodotto e poiché era piuttosto grassoccia, faceva fatica a passare tra gli scaffali, e finiva spesso che ci trovavamo uno addosso all'altro, e lei mi spingeva di lato premendo il suo seno contro il mio petto. Un giorno, senza volerlo, ho messo le mani sulle sue grandi tette, le ho chiesto scusa ma le ho tenute dov'erano. Mi ha guardato fisso fisso.
"Se lo racconto a mio padre ti costringe a sposarmi. Oppure non gli dico niente, però non ti pago il caffè." Non aveva finito la frase che già avevo tolto le mani.

Dopo pochi mesi avevo imparato a conoscere il giro alla perfezione: sapevo le vie meno trafficate, prendevo scorciatoie sconosciute anche ai milanesi, avevo confidenza con tutti i clienti e di ognuno sapevo pregi e difetti, mi davano fiducia e mi muovevo dentro ai negozi in piena libertà e assoluta autonomia. "Vedi tu quello che mi serve" mi dicevano, e io li servivo con correttezza e precisione, senza mai approfittarne.
Una volta la settimana concludevo il percorso in via Lazzaro Palazzi, dov'era il negozio alimentare di Franco Di Stasi, con il quale mi ero fatto amico. Franco era salito dalla Puglia con tutta la tribù: padre madre fratelli sorelle e parenti fino al settimo grado, l'olio buono e le orecchiette. Verso l'una chiudeva la saracinesca e salivamo in casa sua per mangiare e bere. Preparavano una tavolata che, se andava male, ci stavano almeno una ventina di persone e certe volte superava anche quaranta.
E siccome ero l'ospite mi rimpinzavano come un maiale e mi offrivano anche un letto per riposare: "tanto fino alle quattro non si apre", mi diceva suo padre Tonio, con l'accento strascicato della periferia barese, e non riuscivo a trasmettergli che io non avevo bottega e facevo un altro mestiere.
Il circuito giornaliero, che all'inizio mi aveva fatto piangere, adesso, qualche volta, lo terminavo in mezza giornata e siccome non potevo rientrare in torrefazione prima delle sei, avevo scoperto una zona dove potevo restarmene in pace a trascorrere il pomeriggio leggendo libri fumetti e giornaletti pornografici, senza che Renzo mi potesse scovare quando faceva i suoi giri di controllo.

Era un quartiere dalle parti dell'Università Bocconi, tra Castelbarco e Giambologna, un intrico di stradine con piccole villette chiuse da steccati e qualche raro condominio che non superava i tre piani; pini faggi e aceri frondosi, rendevano l'ambiente un luogo ideale per sostare tranquilli come fosse campagna.
Il giugno del '62 era particolarmente caldo e così, un pomeriggio, sono sceso dall'auto per mettermi seduto sopra una panchina che stava sul marciapiede di via Caimi. Dal giardino della villetta che avevo alle mie spalle sentivo provenire rumori ed è stato normale di girarmi a guardare, d'improvviso mi è parso di vedere una ragazza piuttosto svestita che si muoveva al di là della siepe. Mi sono alzato in piedi e ho cercato di osservare meglio facendo finta di accendere una sigaretta.
"Mi abbronzo in costume dentro al mio giardino" ho sentito dire.
"Parla con me?"
"Sì, parlo con te"
Poiché mi sembrava un invito, mi sono affacciato al cancello, ed effettivamente una bella signorina, dalla pelle chiara, appena ambrata dal sole, stava sopra una sedia a sdraio con un indosso un costume due pezzi.
"Contento di vedermi?"
"Sentivo dei rumori…"
"Il cancello è aperto e se ti va puoi pure entrare"
"Però io non ho il costume"
E lei si è messa a ridere rivelando due file di denti bianchissimi.
"È diverso vedere una ragazza in bikini al centro di Milano"
"Diverso da che cosa?"
"Dal vederla al mare"
Insomma abbiamo rotto il ghiaccio e ci siamo messi a chiacchierare. E le ho detto che mi chiamavo Samuele, che non avevo ancora ventanni, che avevo smesso di studiare; le ho spiegato che lavoravo per la torrefazione Guarany e qual era il mio mestiere, e poi le ho regalato 6 lattine del caffè migliore. E lei mi ha detto che viveva sola perché suo marito viaggiava molto e adesso stava in Inghilterra e sarebbe tornato sabato.
"Ma poi lunedì, purtroppo, riparte ancora. Mi chiamo Donatella, piacere."
"Piacere mio" le ho risposto "Donatella è un nome promettente."
Da quella volta ho smesso di andare dal mio amico Franco Di Stasi e facevo di tutto per terminare il percorso in via Caimi.
Donatella risultava sempre più simpatica e nelle settimane successive mi sono portato anche il costume da bagno e lei mi ha procurato un'altra sdraio che mi potevo sedere di fianco ad abbronzarmi con lei.
Poi una volta ci siamo messi a giocare a pallavolo, come fossimo sulla spiaggia di Rimini, e siccome mi tuffavo per farle vedere quanto ero agile, è finita che quando è stata ora di rientrare ero tutto sporco di terra.
"Non puoi andartene così conciato. Entra in casa a farti una doccia" mi ha proposto Donatella. E io l'ho presa in parola, ma si sa come vanno a finire certe situazioni, anche perché Donatella ha voluto pure lei farsi la doccia.
"Mi sento tutta sudata, e puzzo come una capra." Ha detto la ragazza annusandosi sotto le ascelle.
Insomma quella volta erano le nove di sera e ancora stavo dentro la villetta di via Caimi e non m'ero accorto di come volavano le ore.
"Oddio!" Ho urlato pieno di spavento. "In torrefazione mi staranno cercando!" E poi mi sono agitato come quando stavo in ritardo nel fare il giro della clientela.
Ho smesso di fare la doccia, mi sono rivestito e sono corso fuori che ancora abbottonavo i pantaloni, e Donatella mi ha accompagnato fino al cancello.
Renzo, quello senza diminutivo, stava davanti alla Fiat Coriasco ad aspettarmi, mi ha guardato ed ha scrollato la testa.
Ho lanciato a Donatella uno sguardo che aveva la stessa intensità di Humphrey Bogart verso Ingrid Bergman all'aeroporto di Casablanca, e col medesimo stile le ho girato le spalle.
"Salta in macchina" mi ha detto Renzo senza nessuna espressione nella voce. "Torniamo in via Morosini, io ti seguo con la mia vettura."
Prima che salissi sul furgone mi ha appoggiato una mano sulla spalla: "Raccontiamo che hai avuto un guasto e sei rimasto fermo dal meccanico." E dicendolo mi ha schiacciato l'occhio.
"Sono stato ragazzo anch'io" ha continuato, e dentro quella frase mi è parso di sentire un filo di rammarico.

A fine anno la mia zona aveva raddoppiato le vendite. Avevo aumentato le quantità per ogni tipo di caffè proposto: sfuso, confezionato e crudo, ed era cresciuto anche il parco clienti.
Tra i privati si era inserita una signora di via Caimi che telefonava ogni quindici giorni e io passavo da lei nel pomeriggio, effettuavo il mio servizio e tornavo in torrefazione sempre un po' tardi.
A Natale il signor Wigley mi ha regalato un orologio da polso perché imparassi ad essere più puntuale.



Claudio Bianchi


Racconto finalista al Concorso "CAFFÈ LETTERARIO MOAK" 2006



Claudio Bianchi - Icaro nella menteClaudio Bianchi ha pubblicato:
ICARO NELLA MENTE
PeQuod, 2005

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La pizza, una storia straordinaria


La pizza, una storia straordinaria

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 5392  
Pizza Margherita


Mi piace immaginare che…….

tanto e tanto tempo fa , diventato agricoltore, un uomo raccolse i chicchi di grano, li macinò e ne trasse nutrimento. Lo fece miscelando la polvere con acqua e poi arrostendo l'impasto sagomato a disco su delle pietre roventi. Apriva così la strada alla conquista del pane, delle schiacciate, delle focacce, delle pizze, e in seguito la comune pasta. Ma questa e’ un’altra storia.... che certamente vi racconterò. Ciò che va subito detto è che pane, pizza, focacce, sono insieme origine e radice della civiltà, ne testimoniano nascita e affermazione . Quelle schiacciate rozzamente arrostite su pietra col passare del tempo furono cotte con crescente raffinatezza .


La grande evoluzione, anzi rivoluzione, fu la scoperta del miracolo della lievitazione e del primo forno.
Avvenne seimila anni fa in Egitto.
Nella zona del vicino Oriente, dal Nilo all’Eufrate, denominata la mezzaluna fertile,la storia aveva camminato in fretta. Qualcuno aveva notato che l'impasto genericamente chiamato “pane” veniva spesso pervaso da forze misteriose, che ne provocavano il gonfiore per poi guastarlo. Alcuni consideravano impura, una sorta di maleficio, quella pasta e la buttavano via, altri pensarono di servirsi del fenomeno. Una precisazione: le diverse forme di preparazione del pane sono spesso legate alle inclinazioni religiose.
Gli ebrei, tra i più rigidi, rifiutavano il pane lievitato, nei loro riti era considerato impuro. E ancora oggi, nella Messa cattolica, si usa l'ostia non lievitata.
Gli egizi impararono, dunque, a utilizzare quella pasta, a cuocerla e a conservarne qualche pezzetto per trasmettere ad altri impasti la stessa forza lievitante. Gli egiziani inventarono il forno, di questo abbiamo informazione certa, che era fatto di mattoni e a forma di cono.
Il fuoco si accendeva all’interno del cono, all’esterno si appiccicavano le pagnotte che una volta cotte cadevano e venivano riappiccicate sull’altro verso per completarne la cottura.
Mentre il forno si evolveva il fuoco finiva sotto un piano, sul quale veniva cotto il panetto lievitato di farina e acqua.
Questo cibo, intanto, acquisiva un carattere religioso unico. E’ certo che furono cotti pani in forme diverse, e per riti particolari, come offerta votiva alle divinità. Se ne trovano ancora in uso in varie regioni d'Italia e in altre parti del mondo, anche se strada facendo si sono persi i significati originari.
Tra questi pani ce 'erano gli arricchiti con olive, ciccioli di maiale – veri antenati delle torte rustiche attuali- e quelli infarciti di miele, uvetta, pinoli, canditi, in seguito diventati panettoni, pangiallo, pandolce, e via dicendo.
Qualche riferimento di carattere linguistico, su quelle primitive schiacciate che accompagnarono la vita italiana dall'antica Roma al medioevo, lo troviamo intorno all’'anno Mille.
A Napoli, in attesa dell’annunciata fine del mondo, si parla di lagano , dal latino “laganum” a sua volta dal greco “laganon” ; una sorta di sfoglia molto fine tagliata a liste ,simile alle attuali tagliatelle che, appena sfornata, veniva condita con verdure e legumi. Compare anche il termine picea, non e’ dato sapere se in alternativa o per indicare una preparazione diversa: il disco di pasta veniva coperto da ingredienti vari, colorati e saporosi, prima di mandarlo in forno. Subito dopo compare il termine pizza: non dimenticando pero' che indica, tuttora nel sud d'Italia, non solo la classica pizza ma anche dischi di pasta ripieni e fritti, e focacce o preparazioni simili.
Bisogna arrivare al Settecento per vedere comparire la pizza, intesa come quella attuale che ha fatto il giro del mondo. Parlo della pizza col pomodoro, nelle piu’ svariate versioni, sempre caratterizzata dall’accattivante e tipico e tipico aspetto multicolore .
La ragione di un così tardivo accostamento del pomodoro alla pizza e’ data dal fatto che ci e’ voluto un secolo e mezzo affinché il pomodoro si diffondesse in Europa dopo la sua scoperta in America.
E’ dunque verso la fine del Settecento che si produce, soprattutto a Napoli , la rossa pizza al pomodoro. Prenderà, via facendo, il sopravvento su tutte le altre pizze sino ad allora conosciute; quelle con aglio e olio a crudo o a cotto, quella con mozzarella e acciughe salate, quella coperta di pesciolini minutissimi, detti cicinielli che, a quanto pare, sembra anche una delle più datate. E ancora: si ha certezza di una pizza piegata a libretto, sorta di calzone, farcita di ripieno.
Dobbiamo arrivare al 1830 per avere notizia certa dell'esistenza di una vera pizzeria, col suo forno a mattoni e il fuoco a legna, (fino a quel tempo i “pizzaiuoli” avevano solo dei banchetti all'aperto) la prima nata a Napoli, detta Port'Alba, di fianco dell'arco che da piazza Dante immette in via Costantinopoli.
Anni dopo la pizzeria Port’Alba divenne ritrovo e luogo di ispirazione di scrittori ed artisti famosi; si racconta che, su quei tavoli D’Annunzio scrisse i versi di una delle canzoni napoletane più belle e romantiche : “A Vucchella”. Frequentatore assiduo fu Salvatore Di Giacomo che alla pizza dedicò spesso accorati versi.
Lo stesso Alessandro Dumas , padre dei Tre Moschettieri, scrisse osservazioni acute sulla pizza nel suo “Corricolo” , sorta di reportage giornalistico da inviato “ante litteram”. Non mancando però di prendere cantonate anedottiche - riguardo alla pizza detta ad “ad otto” - quando asseriva che andava preparata otto giorni prima di mangiarla: in realtà era la tradizione, in certe parti ancora in auge, secondo cui si mangiava la pizza e la si pagava otto giorni dopo con lieve sovraprezzo. Il pagamento differito, insomma.
Ah! L’inventiva Napoletana!
Arriviamo così a fine ottocento, esattamente nel 1889 .
Nel giugno di quell'anno il re Umberto I con la regina Margherita, trascorrevano, come da tradizione l’estate nella reggia di Capodimonte.
La regina era incuriosita dalla pizza, che non aveva mai mangiato e di cui aveva sentito decantare bontà e fascino dagli scrittori e artisti di corte.
Fu così chiamato a palazzo il più rinomato “pizzaiuolo” del tempo, Don Raffaele Esposito , la pizzeria del quale si trovava in Salita Sant'Anna di Palazzo, a pochi passi da via Chiaia, oggi Pizzeria Brandi.
Utilizzando i forni delle cucine reali, assistito dalla moglie donna Maria Giovanna Brandi, la vera maestra , presentò ai sovrani, le cronache del tempo così raccontano, tre specialità : una con sugna, che e' una sorta di strutto, formaggio e basilico; una con cicinielli e una terza con mozzarella, pomodoro e basilico, i colori della bandiera italiana, che entusiasmò in particolare la regina Margherita, non solo per motivi patriottici.
Don Raffaele, sagace napoletano, avvezzo alle pubbliche relazioni, colse al volo l'occasione ,chiamò quella pizza "alla Margherita", subito dopo la mise in lista nel suo locale ed ebbe, come si può immaginare, notevole successo.
Questa e' la storia vera; solo che la pizza alla margherita o pizza margherita, come si cominciò a chiamarla dopo quell'episodio, passava per novità, ma novità non lo era poiché a Napoli si faceva già da tempo.
Per esempio, per un'altra regina, la borbonica Maria Carolina, ghiotta di pizze, tanto che aveva voluto a corte, nel palazzo di San Ferdinando, un forno apposito.
Carolina amava molto quella pizza bianca, rossa e verde; ma forse, se avesse immaginato che quelli sarebbero stati i colori dell'Italia unita sotto la dinastia che avrebbe cacciato la sua, non ne sarebbe stata così tanto entusiasta.
L'inizio del "900 vede la pizza pronta per la sua diffusione su scala nazionale e mondiale, ben al di là dei confini napoletani che fin qui abbiamo conosciuto: la pizza conquista consensi dall'Europa all'America al Giappone ,divenendo, e non è un'esagerazione ,patrimonio
dell'intera umanità.
Le due pizze che hanno fatto più strada sono la cosiddetta napoletana, uguale alla margherita ma con l'aggiunta dell'acciuga e la stessa margherita. Però, storicamente, abbiamo visto che altre tipologie di pizze precedono e vantano patenti di nobiltà e di autenticità partenopea.


Veniamo ai giorni nostri e più prosaicamente come preparare una buona pizza.
L'elemento piu' importante per ottenere una ottima pizza e' l'impasto.
Gli ingredienti sono: farina, acqua, sale, lievito, olio (non necessario)
E' il caso di fare alcuni accenni sulle caratteristiche degli ingredienti dell'impasto .

FarinaFarina

Le farine si dividono in :

  • farine di grano tenero, per pasticceria e panificazione;

  • farine di grano duro prevalentemente per pasta.


La farina è formata da enzimi, zuccheri, proteine, sali minerali.
Gli enzimi sono elementi che favoriscono le reazioni chimiche nell'impasto, si dividono in due categorie: amilasi e proteasi.
Le amilasi scindono l'amido , producendo zuccheri semplici, l'alimento principale del lievito.
Le proteasi invece intaccano il glutine rendendolo più elastico.
Le farine di grano tenero si dividono in farine 0, 00, 1, 2, integrali, a seconda del grado di raffinazione detto "abburattamento".
Le farine di grano tenero a loro volta si identificano in farine deboli , medie e forti.
Le farine di media e bassa forza vengono usate per gli impasti diretti per pizze e pasticceria, quelle di alta forza negli impasti indiretti tipici nella panificazione.
La forza della farina è data , specialmente ma non solo, dalle proteine contenute, in particolare gliadina e glutenina, che insieme formano il glutine.
Una farina forte assorbe una maggior quantità di acqua nell'impasto rendendolo più resistente e tenace.
Queste caratteristiche consentono una maggior resistenza alla lievitazione grazie alle maglia glutinica più solida , evitando quindi che gli impasti si slievitino rapidamente, migliorando la qualità del pane o della pizza.
La forza della farina si misura con apposite prove meccaniche sull'impasto comparando l'estensibilità e la resistenza.
L'indicatore per rappresentare la forza delle farine è il W seguito da una cifra.
Fino a W170 farine deboli, da W180 a 260 farine medie, da W260 a 350 farine forti, oltre W350 farine speciali : prodotte con grani speciali Americani e Canadesi, la cosidetta " farina MANITOBA"; vengono adoperate per rafforzare farine deboli o per produrre pani particolari.
Purtroppo il W non viene riportato nelle farine per uso domestico, quindi l'unico dato per scegliere la farina è quello relativo al contenuto in proteine: più elevato è questo valore, maggiore è la capacita' di panificazione..
Rivolgendosi a forni , pasticcerie, a negozi di granaglie, è possibile acquistare farine classificate secondo il W.
Generalmente nei Supermercati le farine comuni, senza nessun tipo di descrizione, sono deboli; quelle classificate per pizza, focacce ecc. sono da ritenersi medie.
Si possono trovare farine denominate d'America con Manitoba che hanno un W che varia tra 280 e 340.

Acqua
La funzione principale dell'acqua è quella di: miscelare le proteine gliadina e glutenina per formare il glutine ,rendendo l'impasto morbido e malleabile ;
idratare i granuli dell'amido rendendoli attaccabili dagli enzimi per trasformare gli zuccheri complessi in zuccheri semplici, il principale alimento del lievito.
E' importante, dunque che l'acqua sia , sufficientemente pura, senza cloro, mediamente dura (da 5 a 20 gradi francesi) cioè con pochi sali minerali.
La quantità d'acqua in un impasto varia dal 55 al 60 %, per una pizza al piatto classica cotta in forno a legna, al 70-75% per una pizza in teglia cotta nel forno casalingo.

Sale (esclusivamente marino)
Aggiunto ad acqua, farina e lievito il sale contribuisce alla formazione del glutine, agisce inoltre come conservante, rallentando o impedendo la proliferazione di batteri e lieviti selvaggi. La quantità di sale varia, in un impasto, tra 30 e 60 gr per litro d'acqua. In un impasto con farine deboli lo aggiungeremo all'inizio, con farine medie a meta' e circa a 3/4 dell'impastazione con farine forti.
Particolare funzione del sale è anche quella di rallentare la fermentazione del lievito inibendo la formazione di gas carbonico , permettendo quindi all'impasto di avere un'alveolatura regolare e omogenea. Non meno importante funzione del sale, è quella di dare sapore al prodotto finito.
ATTENZIONE!: non mettere mai il sale a contatto diretto con il lievito, lo renderebbe in alta percentuale inattivo, pregiudicando il risultato finale.

Lievito
Parlero' solo del lievito fresco (lievito di birra) il piu' usato e conosciuto.
Microrganismo unicellulare della famiglia dei Saccaromiceti, nella fattispecie " Saccaromycees cervicae" si nutre di zuccheri semplici, producendo anidride carbonica e alcol etilico i quali conferiscono aroma e voluminosita' all'impasto.
Le dosi di lievito da usare per una pizza sono pari all'1% della farina nei mesi freddi, calando nei mesi più caldi allo 0,5-0,7%. Non scendere mai sotto queste percentuali se si vuole ottenere un impasto corretto, altrimenti il sale annullerebbe qualsiasi fermentazione.


Impasto


Impasto
Esistono vari tipi di impasti per la pizza, come gia' detto, i piu' conosciuti sono : l'impasto diretto, "alla napoletana" tutelato da un rigido disciplinare e l'impasto indiretto, derivato dalla panificazione, fatto con biga (un preimpasto solido), con "poolisch" ( preimpasto liquido).
Diretto: in una sola fase si impastano man mano tutti gli ingredienti, si lascia riposare poi si fanno le pagnotte, si lasciano maturare e lievitare, eventualmente ponendole in frigo.
Indiretto: in due fasi.
Prima fase: acqua con metà lievito, si aggiunge farina fino ad ottenere una crema, si copre e si lascia lievitare per il tempo necessario finchè triplica il suo volume, che varia in base al lievito che abbiamo aggiunto.
Seconda fase: si aggiunge il sale, si aggiunge l'altra metà di lievito e si continua con la farina a fine impasto si aggiunge l'olio.
Si lascia riposare, si fanno le pagnotte e poi si metteno in frigo a 4 gradi per la maturazione dell'impasto.
Con farine deboli la maturazione avviene in tempi brevi che in linea di massima coincidono con la lievitazione mentre con farine medio forti la lievitazione è più veloce della maturazione, per cui si mette in frigo per maturare, bloccando così la lievitazione che riprende nel momento in cui si riportano a temperatura ambiente.
LIEVITAZIONE: produzione di anidride carbonica che "gonfia" come un palloncino il nostro impasto. Dipende dalla quantità di lievito, dalla temperatura e dal tempo. Perciò, con quantità di lievito e temperatura costanti il tempo di lievitazione sarà costante. A 22° con 5 gr di lievito, la lievitazione avviene in circa 3-4 ore.
MATURAZIONE: consiste nella formazione dell'impasto, della maglia glutinica e dipende dalla trasformazione delle proteine della farina in glutine. Tale processo richiede un tempo direttamente proporzionale alla "forza" della farina, detto anche fattore di panificabilità, che viene tecnicamente indicato come abbiamo già detto con il coefficiente W.
Farine comuni W = 150-200, tempo di maturazione: 3-5 ore (quindi molto vicino al tempo di lievitazione). Farine poco rinforzate: W = 200-250, tempo di maturazione: 5-10 ore ( i tempi di maturazione e lievitazione iniziano a divergere). Farine rinforzate: W = 250-300, tempo di maturazione: 8-12 ore.
Farine forti: W = 300-400, tempo di maturazione dalle 12 alle 24 ore.
Occorre rispettare i tempi di maturazione!Infatti, se non maturo abbastanza, l'impasto conterrà ancora proteine non trasformate e di conseguenza sarà pesante da digerire! Una pizza fatta con un impasto perfettamente maturato e lievitato , dal punto di vista organolettico è perfetta e,credetemi, letteralmente "si scioglie in bocca".
Altro fattore importante è la cottura , nel forno a legna classico è l'ideale, ma non sempre e non tutti hanno a disposizione tale forno.
Qualunque sia il forno che adopereremo, l'impasto, come gia' detto, e' determinante per una buona riuscita.
Una lunga lievitazione, con dosi appropriate di lievito, e una giusta maturazione sono dunque il segreto.

Ho cercato di sintetizzare, semplificando, i processi che avvengono nell'impasto per pizza, nella tenue speranza di non avervi annoiato con termini , per alcuni di voi, sinora sconosciuti.
Ho ritenuto opportuno cio' affinche' ognuno possa apprezzare meglio il lavoro che sta dietro ad una buona pizza e magari stimolarvi a sperimentare qualche impasto con le dosi che in seguito vi scriverò.
Una cosa possiamo dire alfine , la pizza e' una pietanza semplice ma allo stesso tempo complessa,un pasto completo e bilanciato che comprende: cereali (la farina), verdure (pomodoro e verdure di farcitura), proteine animali (mozzarella e formaggi vari), grassi vegetali polinsaturi (olio extra vergine d'oliva).
La pizza e' una delizia per la vista , un bouquet di sentori e profumi per il naso, un amplesso papilleo per il palato.

PomodoriDosi per un impasto indiretto (col metodo del poolish ) :

Farina 1800 gr: 1000 gr prima fase, 800 gr seconda fase.
Lievito di birra 25 gr
Acqua 1 lt
Sale 50 gr
Olio extra vergine d'oliva 50 gr

Prima fase: sciogliere il lievito in 100cc di acqua tiepida, in un recipiente versare l'acqua e il lievito sciolto,aggiungere i 1000 gr di farina a pioggia mescolando con una frusta. Otterrete una specie di crema, il poolisch appunto. Coprite e lasciate lievitare finche' il suo volume non sia triplicato ed incomincia a cedere al centro (con queste dosi di lievito dovrebbe avvenire in due ore circa). E' importante determinare questo momento (la cessione della crescita al centro) perche' bisogna subito passare alla fase due per completare l'impasto.
Seconda fase : versare il sale nel composto, amalgamare i restanti 800gr di farina e aggiungere infine l'olio. Fare i panetti 180- 200gr per pizze da cuocere in forno a legna, 300 , 350 gr per pizze da cuocere in teglia nel forno casalingo ; in questo caso è consigliabile diminuire un po' la farina nella seconda fase 650- 700 gr per ottenere un impasto un po' piu' morbido, non preoccupatevi se rimane un po' appiccicaticcio. Al momento di stendere in teglia potrete adoperare olio o farina nelle mani.
Lasciate lievitare il tutto coperto , finche' non ha raddoppiato il suo volume.
Se avete usato farine medio forti, potete tenere i panetti in frigo, per 3-4 ore tirandole fuori due o tre ore prima di porzionarle nelle teglie o cuocerle nel forno a legna.
Potete ridurre le dosi indicate, di tutti gli ingredienti, in proporzione a secondo del vostro fabbisogno.
Anche le dosi del lievito nella prima fase possono essere ridotte in percentuale a seconda del tempo a disposizione :
2.5% di lievito (sul peso della farina) per 2 ore di fermentazione a temperatura ambiente (20-23°C);
1.5% di lievito per 3 ore;
0.5% di lievito per 8 ore;
0.1% di lievito per 12-16 ore;

Cottura.

Nel caso di cottura in forno elettrico mandatelo a regime (250- 300° per 15-20 minuti) prima di infornare ; stendete il panetto nella teglia lasciatelo riprendere per un'ora circa, copritelo con pomodoro (a filetti o passata, come vi aggrada) ponetelo in forno per una precottura per circa 10 minuti, la pasta si deve alzare e cominciare ad imbiondire, tiratela dal forno completate la farcitura con mozzarella ,acciughe ecc. secondo vostra fantasia e gusto.
Riponete in forno per completare la cottura.
Questo procedimento , si rende necessario, perche' nel forno casalingo la cottura è più prolungata per cui la mozzarella e gli altri ingredienti si seccherebbero troppo.
Anche per questo e' preferibile fare un impasto piu' morbido e umido.
Nel caso di forno a legna stendete il panetto con la classica forma tonda, conditelo con tutti gli ingredienti che vi aggradano, infornate e cuocete; in questo caso il forno deve essere intorno ai 350-400°, segno tangibile è quando la volta e il piano sono di colore bianco. Altra prova è spargere sul piano di cottura un po' di farina; a seconda del tempo necessario per bruciare, si può dedurre un indice di temperatura , molto empirico per la verità . Ma con un po' di esperienza riuscirete riconoscere a vista , se il vostro forno e' pronto o no a cuocere meravigliose pizze.

Dosi per un impasto diretto "alla Napoletana"

Farina 1650 gr
Lievito di birra: 5gr (dividete in 5 parti un cubetto da 25gr) con temperatura ambiente di 20°-22
2,5 gr (dividete a meta' 1/5 di un cubetto da 25gr) in piena estate
15 gr (poco piu' della meta' di un cubetto da 25gr) in inverno

Acqua 1 lt
Sale marino 50gr
Olio extra vergine d'oliva 30gr (facoltativo, la maggior parte dei "pizzaiuoli" non lo adopera).

Mettete nell'impastatrice tutta l'acqua, scioglieteci il lievito, aggiungere meta' farina impastare per 5 min., aggiungere il sale a spaglio, senza scioglierlo in acqua, aggiungere a ventaglio , facendo cosi "ossigenare" il resto della farina fino a raggiungere un grado di consistenza che si stacca dalla pareti della macchina.
Se l'impasto si presenta troppo morbido e umido aggiungiamo un po' di farina, se troppo duro un po' d'acqua.
Al tatto deve sembrare vellutato. Tutto il ciclo non deve superare i 10- 15 min.
L'ossigenazione: gettare a ventaglio la farina, e' il vero trucco della tradizione napoletana per ottenere da farine deboli (un tempo non esistevano farine rinforzate) una maglia glutinica tenace.
Se non si possiede un'impastatrice si usa un recipente grande dove amalgamare il tutto per poi completarlo a forza di braccia e olio di gomiti,su uno stenditoio per pasta.
Dopo aver ottenuto una bella pagnottona si lascia "puntare" per 3 -4 ore coperta con un panno umido ,per non farla seccare nel luogo piu' fresco; se si ha una cantina è l'ideale.
Dopodiche' si esegue lo "staglio " o "mozzatura" ; si formano cioe' dei panetti, detti "panielli" dai 180 gr ai 350gr , a secondo delle nostre abitudine ed esigenze . Questi "panielli" si pongono in cassettine ben coperte , per evitare che si formi la crosticina.
Il tutto deve lievitare e maturare per almeno altre 4 ore sempre in luogo fresco , l'ideale sarebbe un luogo intorno ai 10-15°.
Se viviamo in appartamenti surriscaldati possiamo tenerli a maturare ,come spiegato in altra occasione, in frigorifero avendo cura di estrarli qualche ora prima di prepararli alla cottura; in questo caso e' meglio aumentare la dose di lievito a 6/7 gr per lt d'acqua (sempre ad una temperatura ambiente di 20°-22°).

Cottura

Per la cottura delle pizze preparate con questo tipico impasto alla "Napoletana" valgono gli stessi accorgimenti raccomandati per la pizza preparata con impasto indiretto, precedentemente descritto.

Ed ora tutti a divertirci a preparare stupende pizze, da assaporare e gustare con gli amici piu' cari!!!!!!!!!!!!!!!

Pizza napoletana


Vostro

Salvo De Rocas



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