EDITORIALE : NAPOLI SIAMO NOI


EDITORIALE : NAPOLI SIAMO NOI

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Giorgio Bocca - Napoli siamo noiGiorgio Bocca è il degno esponente di quella tradizione di civil servant piemontesi quale Caselli, Dalla Chiesa, Don Ciotti e altri. Ma tant’è, è un isolato. Di lui segnalo, più dell’ultimo, non ancora acquistato, L’Inferno, del 93, un’odissea giornalistica - ma anche sentimentale, perchè Bocca da bravo piemontese al suo Paese ci tiene, lo disprezzi o meno - nelle 4 regioni sotto il tallone mafioso. Quel libro è il padre elettivo del presente. Quando lo lessi, e lo rilessi, da un lato ne riemersi intorpidito, dall’altro non potetti che assentire. Bocca appartiene a quella razza pregiata che da un frammento ricava l’universo, grazie a straordinario istinto percettivo. Chi non lo comprende - ed è facile, inutile girarci - rileva in queste indagini del pressapochismo. In realtà il suo scandaglio è frutto di una scuola in estinzione, che impone al cronachista non di trarre notizie da un monitor ma di uscire in strada e domandare. Da qui gli equivoci sul particolarissimo interpretare. Quanto ai refusi, che per castronaggine fanno perdere di vista la sostanza di un dramma, vanno evidenziati. Specie al cospetto di un osservatore attento come lui...

Una cosa però la voglio dire, in merito a quest’ultima sua fatica, e riguarda il titolo: Napoli siamo noi. Che ovviamente non va inteso come estensione agli italiani (certi chierichetti!) di quei luoghi comuni quali delinquente, mafioso, mandolinaro, furbastro, ladruncolo, incivile e fancazzista (Napoli insomma come propulsore del Peggio) che ancora infestano certe fantasie antimeridionali. No, e meno male, equivarrebbe al delirio hitleriano sugli stenti del dopo Weimar da imputare agli ebrei. Il titolo sta a dimostrare che quella magica e sciagurata città (meta a Natale di 70000 impavidi visitatori, quorum ego, tutti muniti di casco da safari e schioppo) è lo specchio ingranditore di ciò che altrove occhieggia, è tra le pieghe. Questo va specificato. Come altrettanto mi induce a una riflessione il frammento di mia vita napoletana nella settimana di Natale.
Intanto una premessa di carattere personale: me ne scuso, ma è funzionale al resto della storia. Sono nato a Napoli e vivo in Piemonte da parecchio, però a Napoli ci tengo, una volta all’anno devo andarci, come a rivivere un amore. E devo aggiungere, per paradosso di sorte, che giusto nel momento di partire riscopro i segni di un nuovo appartenere. Diversi amici autoctoni, sia con lo sguardo che a parole, difatti danno a intendere di restarci male, per quella che ritengono una fuga. “Ma come, te ne vai?”, capisco da quegli occhi, o assaggio come retrogusto emotivo di formalismi tipo ‘fai buon viaggio, salutaci la tua Napoli’. Il che non può che farmi legittimo piacere.
Si alloggiava alle Rampe Brancaccio, a due passi da quella vena di edifici umbertini e liberty, preziosissimi, che è Via Dei Mille, di un gioiello quale Piazza dei Martiri, e di una Via Calabritto che nulla ha da invidiare a Montenapoli in Milano: per maestà di costruzioni e lucentezze. Ora un posto del genere, non dissimile al centro di una qualunque capitale, in un tesoro di arte, storia, spazi pedonali cinti da palazzi, le cui linee brillano a prima sera per i filari di luci su archi e costoni, in questo stagno di delizie - non nell’inferno dei martiri di Scampia, dunque - trovo grottesco che si abbia paura. Non mi riferisco alle vie o piazze citati ma appunto a quelle Rampe Brancaccio, un tempo indice di appartatezza e vivere gentile, ad esse contigue. I palazzi, splendidi - taluni culminati con torrette a merli, altri dai terrazzi piantumati a cotto - e la stradina a tornanti sono quelli di sempre, come identica è la vicinanza con piazzetta Mondragone e via Nicotera. Dove fermenta il marcio. Via Nicotera e Piazzetta Mondragone sono il limite di rispetto, un Acheronte dove termina la cosiddetta città bene e c’è l’inferno. Una ripida discesa le collega ai famigerati Quartieri Spagnoli, regno del Male, assoluto, da cui emergono subumani brunofacciuti, gli occhi lumeggianti come lupi, in groppa a motorini il cui scoppiettare è insieme monito e provocazione. La gente delle Rampe li teme, paventa nell’uscire di esserne depredata. Quando è giorno, o al tramonto, lasciando perdere la notte, non ci cammina nessuno, per le Rampe. Ogni momento - ogni!- un’ora vale l’altra per essere scippati: di tutto, a cominciare dalla borsa, il portafogli, per non parlare di una bijoutterie qualunque o del più infimo laccetto. Una amica mi riferiva che quando visita i parenti su alle Rampe copre la borsa col cappotto ( e di estate? a primavera? ) e se ha un anello, l’orologetto, insomma quanto di smerciabile si permetta, che cosa fa? ha predisposto una bustina in stoffa in cui gettare quegli oggetti, che dopo comiche contorsioni fissa con una spilla al reggiseno. E tutto questo per andare da parenti. Alle Rampe Brancaccio.
L’impatto di questi racconti e dell’effettiva sperdutezza del posto sul mio breve soggiorno è presto detto. Io me ne sono sbattuto, un antico amore impone dazi, pur rabbrividendo il pomeriggio di Vigilia quando, dopo il tornantino, una motoretta mi ha scorreggiato indietro, e perciò ho guardato, e visto due occhi diritti dentro i miei, prima che il cervello malato che li aziona decidesse che non ero carne di scelta e sterzasse. Me ne sono fregato, ma mia moglie, che a Napoli non vuole più tornare, foss’anche mezza volta l’anno - della figlia piemontese taccio per intuibili ragioni - mia moglie un giorno l’ho sorpresa trafficare a un sacchetto. Era di plastica, del GS, e vi infilava la borsa. “Così pensano che c’ho dentro la spesa”, mi ha detto nell’uscire.
Stanno mangiandosi tutto, tutta la città, sotto gli occhi allibiti della buona gente. A via dei Mille come a Scampia, ai Cristallini, Materdei, dentro i Granili, al Conte di Acerra, a Mezzocannone, in Fuorigrotta, Antignano, Bagnoli, da Chiaia a Barra, il Chiatamone, San Ferdinando, i Gradoni, all’Ascenzione. Tutto, ogni carne è buona.
Alle armi, napoletani, alle armi della ragione, come nel 99, nel 48, nel 43. Che non sono un terno al lotto.



Carlo Capone


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