SPAZIO SCRITTURA : AUSTERLIZ - Racconto di Carlo Capone


SPAZIO SCRITTURA : AUSTERLIZ - Racconto di Carlo Capone

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Ha gelato, stanotte. Me ne sono accorto quando sono uscito a pisciare. “Givarch!”, mi ha gridato qualcuno da dietro, “ti è andato in fumo l’uccello?”.
Mi sono storto e ho visto Galimier. Sporgeva con il capo dai lembi della tenda, senza quegli stracci in cui l’avvolge la notte a mo’ di paraorecchi. Non lo sopporto quell’uomo, per i seguenti motivi. Primo: ce l’ha più lungo del mio, secondo: a causa dell’umorismo idiota, tipico dei meridionali. Questa mattina però aveva ragione, il calore del piscio aveva sciolto la crosta di brina. Dal piccolo buco nell’erba si alzavano ciuffi di vapore che sembravano fumo.

Prima di rientrare – Galimier, lo sapevo già, mi avrebbe raccontato di quante marsigliesi s’era scopato in sogno – mi sono fermato a guardare. E non ho visto niente. Ieri sera gli ufficiali ci hanno spiegato che siamo a ovest di un fiume. Ci hanno anche detto che oltre gli stagni di fronte è accampato il nemico. Era buio, e in più avevamo da montare i bivacchi. Stamattina, dicevo, ho voluto controllare: insieme all’uccello era andato in fumo anche il lago. La coltre di nebbia, ostile e vischiosa, lasciava appena intuire un’immensa spianata di ghiaccio.
Anche Galimier mi ha sorpreso. Mi aspettavo di ritrovarlo a cuccia. Di solito, a prescindere se il bivacco è al chiuso o all’aperto, occorre la frusta di un caporale per spingerlo ad alzarsi. Questa volta no. Era ritto, vicino alla catasta di fucili, infagottato nel pastrano di Morgaix che, dio l’abbia in gloria, era il doppio di lui. Parlo così perché quel fesso di Morgaix – e come potrebbe non esserlo uno di Rouen?- s’è fatto beccare in quello stupido agguato in Baviera. La pattuglia di austriaci ci ha sorpreso durante la perlustrazione di un bosco. Hanno sparato all’impazzata, neanche fossimo in cento. Secondo me s’erano cagati addosso, come e più di noi. Basta, io e Galimier siamo riusciti a sganciarci, correndo carponi tra le felci. Morgaix invece è rimasto impietrito, continuava a fissarli, come fosse sicuro che non l’avrebbero preso. Scappa, per dio, scappa!, ho urlato, mentre insieme a Galimier me la davo a gambe. La nuova raffica mi ha coperto la voce. Allora mi sono liberato dello zaino e ho iniziato a correre a perdifiato. Galimier non si era neppure degnato di aspettare, appena l’ho raggiunto al sicuro ha fatto un cenno al boschetto e detto "Nuovo quel pastrano". La sera stessa c’è tornato e se l’è preso.
Dunque, ero a pochi passi dalla catasta di fucili quando Galimier ne ha afferrato uno e mi ha chiamato alla sua maniera “Givarch!”
Non so, sarà un’impressione, un’eco interna per via della disparità di uccello, ma se pronuncia il mio cognome, squarciando l’aria come intendesse ruttare, ho sempre il sospetto che ci sputi sopra. Givarch!, e quell’onda sguaiata mi sale su in testa, un impulso assassino la scompone in fette, per poi mutarla in qualcosa del tipo: ‘ce l’hai troppo piccolo’.
Prima che attaccasse con l’elenco delle troie, ho voluto prevenirlo. “Quante te ne sei scopate stanotte?”
Gli è comparso il solito ghigno da idiota, ancora più ironico per via del copricapo calzato di traverso e del sottomento slacciato.
“Mi gioco la pipa che non ci crederai”.
“A cosa, non devo credere?”
Ha fatto il gesto di fissare la fibbia e poi s’è fermato:
“Ho sognato le tue oche”.
Dovete sapere che per mestiere faccio l’allevatore di quei pennuti. Le cresco, le ingrasso e le vendo. In guerra è così, c’è chi sogna le troie, chi altro la moglie e chi un letto caldo. Io penso solo al mio commercio di oche in Bretagna. C’è da fare soldi, molti soldi, ci credo davvero, nonostante quel porco di Morignon me le paghi sei franchi la coppia. Il giorno che vennero i soldati a prendermi - l’Armata si era adunata a Boulogne, cioè non molto distante da Rennes, dove ho la fattoria – quando si presentarono, dicevo, ho cercato di spiegare, a un certo punto ho anche sbattuto il berretto per terra. Malgrado sia in età di ferma credevo di esserne esente: vivo da solo con mia madre e sono orfano di guerra. Mio padre l’ho perso nel 97, quando avevo 13 anni, di lui conservo la medaglia di eroe della campagna di Italia. Niente, non c'è stato verso, non è servito a nulla spiegare che il commercio va a farsi fottere, se non ci sono io, e che mia madre, da quando è morto il marito, si è incitrullita e vede i folletti.
Il nostro Imperatore pensa solo alla gloria, ma io agli incitamenti degli ufficiali non ci credo mai. “Cittadini, le vostre bisacce, gli zaini, le giberne, recano un seme! il germe di pace, giustizia e libertà che il nemico disprezza”. Sì, giustizia e libertà, ma chi ci pensa alle mie oche, tu, cittadino capitano? Oppure tu, signor Bonaparte? Siete proprio sicuri, davvero pensate che Lucien Givarch, di mestiere allevatore, creda alle vostre frottole? Come fanno questi idioti imbottiti di rhum prima di combattere?
Pensavo alle oche, e alla fandonia delle giberne, ma anche a Galimier e alle sue insinuazioni, mentre discendevamo il pendio. Al mio reggimento era stato ordinato di manovrare a sinistra, con lo scopo di investire il nemico sul fianco, a est dello stagno. Procedevamo a ranghi serrati, i fucili in resta e due colpi in canna. Davanti a me, a pochi passi, avanzava fiero il rotto in culo del tamburino – non posso farci niente, è più forte di me, se gli guardo le chiappe penso sempre che lo prenda da tutti. Dunque, si è piazzato sulla mia prospettiva, in linea col portabandiera, insomma nel punto giusto per farmi beccare. Allora ho alzato il capo, evitando di guardare ai compagni che cadevano a grappoli. Se ti volti e guardi – veramente, ci credo sul serio - la prossima palla è la tua. Ho fissato il cielo, dicevo, e a sorpresa, dopo mesi di grigio, ho visto il sole. Cristo, ha funzionato come cento razioni di rhum scolate in un sorso. Il guaio è che il rhum l’hanno preso anche i russi. Abbandonate le postazioni, si sono buttati in avanti, con urla disumane di bestie impazzite. Ma non è tutto. In quel momento la nostra artiglieria ha aperto il fuoco, mirando, insieme ai raggi del sole, al lago di ghiaccio.
E’ stato il punto di maggior confusione, la stessa che provo quando bevo e non so più chi sono. C’era fumo, odore di sparo, e puzza di merda. I lanci di granata e i colpi di mitraglia mi passavano sulla testa. Ho iniziato a correre, insieme ai compagni, fottendomene dei colpi. Giù in basso lo stagno di Monitz era andato in frantumi, un misto di ghiaccio, cavalli e carne cristiana.
A un tratto sono inciampato, ho battuto la fronte. La botta è stata così forte che ho perso i sensi. Quando ho aperto gli occhi ho portato la mano al viso. Ero ancora bocconi e mi colava sangue dal naso. Allora mi sono girato e ho visto i corpi: sbudellati, fatti a pezzi, squarciati. Inerti come statue di ghiaccio.
Di tutto mi si può accusare, ma non di codardia. Rialzatomi, ho ripreso ad avanzare. C’era il tamburo alcuni passi avanti, il ragazzo vi giaceva riverso, le braccia penzoloni. Più in là, immobile al sole, c’era anche Galimier, disteso supino. “François”, ho chiamato, ma lui niente. Mi sono avvicinato, per capire se era morto, e non ho visto ferite. “Galimier!”, ho richiamato, ma più forte. Lentamente, dopo essersi assicurato che ero io, ha riaperto gli occhi e si è prodotto nel solito ghigno. “T’hanno preso all’uccello, Givarch?”
Si riferiva al sangue dal naso, che mi aveva imbrattato anche il ventre.
Credo fosse il 93, no, l’anno prima, insomma ero poco più di un bamboccio. Una domenica mio padre mi fece vestire con l’abito buono e mi ordinò di seguirlo. Per strada gli chiesi dove fossimo diretti. Era un giacobino, di certo non andavamo alla messa. “Conosci il signore di Morbillan?”, mi disse. Intanto eravamo arrivati nel largo oltre il fiume, ma quel giorno non vidi né il venditore di pozioni né l’uomo sui trampoli. C’era folla, questo sì, come fosse mercato, ma tutti premevano in direzione di un palco, al centro della piazza. Mio padre mi spiegò che il Comitato era a corto di soldi, insomma non avevano la ghigliottina. Non capii, anche perché - adesso gli sedevo a cavalcioni sulle spalle - ero attratto dalla figura del signore di Morbillan. Saliva la scaletta del palco con aria di sprezzo, la stessa di quando passava in cocchio davanti alla cascina. Un gradino, la sosta per scrutare il cielo, e poi l’altro. Ma non fu l’incedere a impressionarmi. La capigliatura, piuttosto, scura e fluente; non gliel’avevo mai vista, per via della parrucca incipriata. La camicia, infine. Ne indossava una di lino, finissima, ridotta a brandelli. Qualcuno ne aveva strappato la fila di bottoni.
Appena fu sopra, un bestione con un porro sulla guancia lo afferrò per la collottola, come fosse un coniglio. Quindi, costrettolo per il collo su un ceppo di quercia, estrasse il coltello e gli tagliò la gola. Prima da sotto, tirandogli il mento all’indietro, poi, visto che era un tanghero di macellaio e il signore di Morbillan non si decideva a crepare, adoperando un seghetto. Proprio così, gli troncò i tendini, il pomo e il gargarozzo. Quando fu la volta della nuca, si rese conto che il seghetto non bastava e cambiò attrezzo. Afferrata da una sacca l’accetta, quella buona per gli ossi da brodo, cominciò a menare tanti e tanti colpi che gli schizzi mi bagnarono la faccia. L’urlo della folla, finora ammutolita, accompagnò il gesto finale. Il boia sollevò per i capelli ciò che restava della testa del conte e la mostrò in trionfo.
Va a capire perché tutto questo mi sia tornato in mente proprio oggi, mentre Galimier mi guardava tra le gambe ridacchiando. So soltanto che ho sfilato la baionetta, mi sono avvicinato… e ho riso anch’io.

Carlo Capone © 2003



volume E... non è successo nientepubblicato nel volume "E... non è successo niente",
5° Concorso Letterario D come Donna
Prima Edizione, 2003
con il patrocinio di
città di Segrate e Regione Lombardia










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