RACCONTI: Il mangiatore di fumo


RACCONTI: Il mangiatore di fumo

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Tra poco sarà epifania, io ho già ricevuto la befana. Mentre scrivo vedo le nubi rosse di Bagnoli. Più in giù, rigata dalle sbarre a un finestrino, una macchia di pini adombra la collina.Questo è il limite di orizzonte che mi è concesso, ma anche il confine tra la clinica Villa Tirrena e il mondo animale.
A essere pignoli quelle nubi non appartengono al cielo - come la pioggia, il vento, le stelle - sono piuttosto l’esito di un incesto fra l’acqua e l’acciaio, un parto innaturale che annuncia la colata notturna. Di là di questa balza sento locomotive, strida taglienti di freni, urla di sirene. Colpi lontani, pesanti come battiti di maglio, spezzano il silenzio irreale. L’acciaieria – l’ho imparato presto - è un ventre che non smette mai di ruminare.
Fino ad oggi - da quando papà mi ha gettato via con la mia sacca, come la roba vecchia a san Silvestro - nessuno si era premunito di conoscere il mio nome, chiedere cosa giustificasse la mia presenza, né di salire al terzo piano per accertarsi se mi fossi ripresa o meno. Temevo, dopo la rissa della prima sera, che lo facessero, sbattendomi in isolamento. Invece il gelo: sola e confinata in questo buco, in compagnia di una branda ospedaliera, della poltrona sdrucita e di un tavolo adibito a spegnicicche dall’ospite di prima. Dimenticavo il cesso: un mugolio irritante ad opera di sciacquone difettoso.
Capodanno, dicevo. Mi sono avvicinata al banco di accettazione. Oltre di esso c’era un tizio che dormiva, un braccio sotto il viso e l’altro penzoloni. Saranno state le sei di sera, nell’atrio non c’era anima viva. Anche nei manicomi, evidentemente, il primo gennaio è dedicato allo svacco.
Ho chiesto aiuto alle mie spalle, credendo che papà sopraggiungesse. Mi aveva scaricato all’ingresso e detto dal finestrino: “Cerco un posto e arrivo”.
“Papà!”, ho chiamato. I quadranti del girevole ruotavano a rilento, vuoti come i miei pensieri. “Papà!”, ho gridato. Sentivo freddo, brividi alla pancia e sulla schiena, originati da un riscaldamento difettoso, certo, ma anche da un affetto antagonista: quello del naufrago per la nave che l’ha tradito. Il fuori giri di un motore, lo striscio di pietre sotto le gomme e un rombo che si è perso via mi hanno avvertito che il parcheggio distava una vita, la mia che se ne andava a farsi fottere.
La sequenza di clamori ha sortito uno scopo: il risveglio dell’addetto. Ha strizzato gli occhi e mi ha squadrato. Piano piano, insieme al rialzarsi della testa. Giunto all’altezza dell’inguine, non potendo completare l’ispezione, si è alzato e ha completato il palpeggio visivo.
“Vuole l’impegnativa?”, gli ho chiesto.
Papà era riuscito a procurarne una fasulla tramite la mutua. Depressione ansiosa di origine reattiva, ci ha fatto scrivere, si consiglia ricovero in apposita struttura.
“Quanto sei bona, te l’avvitass miez e’ cosce”, ha commentato il portiere.
“Ce l’hai con me?”,.
“E chi, se no, coll’ombra?”
“E allora vedi se è bona chesta!”.
Ho impugnato la sacca per il collo, l’ho fatta roteare e gliel’ho assestata sulla bocca. Una liberazione. Furia e veleno avevano trovato uno sfogo. Mi ha guardato fisso, irrigidito dalla botta, ed esclamato a fil di labbra.
“Gesù, chest o verament è pazza”.
L’affermazione, invece che da freno, ha funzionato come percussore. Balzata sul davanzale - era basso, giusto l’altezza delle gambe - ho sistemato i piedi all’indentro e mi sono accinta all’azione. “Vien o’ toro, bastardo ”, ho detto strozzata in gola.
Il porco ha fatto un passo, come a raccogliere la sfida, poi ci ha ripensato, sgranando gli occhi - liquidi, cerulei, non me li scordo- e infine urlato ‘infermieri, aiuto, emergenza!’. Uno strillo che ha incanaglito il mio furore. Eccoti, mi sono detta, finalmente!, e ho spiccato il balzo.
Stavo per afferrarlo, dispiegata in volo, quando la biscia ha torto il busto. La mia mano gli ha sfiorato il muso e in quell’istante ho avvertito la fitta. Un colpo secco, tra la milza e il fianco, da mozzare il fiato. Quello rimasto in canna se n’è scappato nel cozzo sul tosto del pavimento. Le percezioni successive, in rapida sequenza, hanno trasmesso il dolore alle coste - sordo, cattivo - un bruciore infernale all’apice del mento e lo scoppio di voci, prima lontane, poi incombenti. Quindi il sollievo del nulla. Come mi auguro debba essere l’istante della fine.
Al risveglio ho avvertito la puzza, e insieme ad essa un gocciolio di pioggia. Pensavo di trovarmi nel mio abbaino. A volte il soffitto fa i capricci, ho sempre i cestini della carta straccia a portata di mano.
Ho aperto gli occhi, guardato meglio, ma invece del raccoglitore dove tengo le pezze c’era un uomo.
“Sapete di Guardaccione?”, ha domandato.
Se ti fanno una puntura al braccio il giorno dopo senti un cazzotto al muscolo, una morsa cattiva come la presa di un secondino. Avevo puntato i gomiti all’indietro e inarcato il busto ma il dolore - unito alle fitte ai reni, al mento e sotto il seno - quel male dappertutto mi ha costretta supina. In più c’era il mugolio del cesso – ecco la pioggia - e, supplizio peggiore, un orribile tanfo di sperma.
Il tizio, dunque, aveva fatto il giro della branda e si era posto di lato, col ventre all’altezza del mio naso. Mi sono torta per evitare l’afrore ma il lezzo non ha smesso di infierire.
“Guardaccioneee”, ho sentito che bisbigliava, “Guardacciò! ” Da uno schiocco di ossa ho intuito che era piegato in ginocchio. Il successivo premere di un palmo sul materasso ha poi avvertito che era intento a sbirciare sotto il letto.
“Guardacciò! e ghiamm nun fa o’ strunz, che ti ho visto! ”.
Mi sono girata, tenendo il mento con le dita, ed è spuntata la radura. Una chierica punteggiata di croste puntiformi dai cui bordi si irradiavano cascami grigi e sporchi. Marò, quanto faceva schifo.
“Iamme, piezze e scem lo so ca ci stai”. Si era disteso sul pavimento e potevo scorgerne il fondo dei pantaloni, lucido e liso, insieme allo spago che li sostiene. Allora ho detto:
“Esca di qui o strillo”.
Ci vuole forza nella voce, ma l’anima che la rifornisce era giù all’accettazione. L’ho visto crescere di culo, sollevarsi e stecchirmi col puzzo.
“Qui non si grida, signorina, è chiaro?”.
“Vai a farti le seghe in fronte al muro, bestia”.
Si è ammansito. Ha spalancato un ricettacolo di denti guasti, piegato il capo di traverso come un bambino e chiesto con un sorrisetto:
“Me la date una sigarettina? ”
Prima che protestassi è corso alla poltrona, dove ha infilato le mani nella sacca e iniziato a frugare. Dio, quella dita, me le sono sentite dentro la vagina. Ho buttato all’aria il lenzuolo, scoprendo di essere in jeans e reggiseno, e sono corsa a bloccarlo. Ma figurarsi. “Sigaretteee! bambineee! dove state?”. Ci aveva infilato anche la testa – sudicia, con le croste e tutto quanto - e si ostinava a cercarvi bambine, sigarette e Guardaccione.
“Fuori o ti ammazzo”, ho sibilato. L’avrei fatto, lo giuro.
“Non sento!”, è pervenuto dalla sacca. “Bambineee, accendineee!”
“Non ci senti? E allora senti ‘sta novena”. L’ho preso per il bavero del giubbino e dato lo strappo. Un laccio che gli ha segato il gargarozzo. Espulso un gemito ha sbuffato. “Aspettate, mo’ arrivo”.
Lentamente, come un riccio dalla tana, ha cavato il cranio, levato un naso lungo e dritto e argomentato: “Guardaccione ce l’ha sempre le sigarette, perciò vengo qui al pomeriggio. Mo’ ve lo faccio spiegare da lui. Guardacciò! – mi ha ghermito il braccio e indotta a sbirciare sotto la branda - “diccello tu alla signora, è vero o no che mi dai e’ Mabbò?”.
Non ho mai patito il vizio del tabacco. Da un po’ di tempo, tuttavia, compro le super senza filtro, così, per cacciare fumo. Ne conservavo un pacchetto la sera di San Silvestro, quando papà mi ha comunicato che era tutto pronto. Ne avrò fumato un paio, quella notte, rintronata dai botti esplosi da mio fratello in giardino. Mentre ficcavo roba nella sacca ho visto il pacchetto e ce l’ho messo.
“Te le do ‘ste sigarette, basta che ti levi!”
Avevo una brutta faccia. Certo è che ha spiccato un balzo animalesco, togliendosi dai cosiddetti, e mi ha permesso di cercare. Che schifo, le croste avevano infettato la biancheria, erano sparse dappertutto, come briciole di pane su un lenzuolo. L’accendino si è materializzato per primo, poi è toccato al pacchetto, ma si trattava della scatola degli assorbenti, che ho scagliato via. Vuoi per la stizza sia perché umido di muco.
Finalmente l’ho trovato“Tieni e smamma!”, gli ho ordinato, girandomi di scatto.
“Guardaccio-neee, dove sei ,malandrine”.
Ma dove stai, bastardo! Era svanito come un incubo al risveglio, se si eccettua il richiamo di Guardaccione che aveva l’aria di pigliarmi in giro. Sarà al cesso. Macchè. “Signori-neeee!”, mi è pervenuto dal basso. Ho seguito il filo e l’ho sorpreso sotto lo scrittoio.
“Le vuoi o no?”, e gli ho agitato il pacchetto sotto il muso. Ha sgranato gli occhi nelle fosse ed è scoppiato in una risata. Un brutto squarcio tra le labbra che ha evidenziato più vuoti che monconi.
“Mo’ ho capito”, si è dato un pugno sulla fronte, “voi siete la mamma, siete la signora Guardaccione, è vero che siete a lei?”
“Sì, sono la mamma, prendi sta roba e via”.
Ho dato due o tre colpi sul pacchetto per estrarne un paio, dovendo arrendermi all’inesperienza. Il contenuto, impaccato, teneva tenuto duro, quelle dannate non volevano sbocciare. Ho battuto forte, allora, colpendo con le dita, ma la foga, la stizza o va a capire cosa hanno fatto sì che calibrassi male. La botta risolutiva ha prodotto una fontana di sigarette. Alla cui vista si è avventato. Una se l’è messa nella tasca del giubbino, la seconda l’ha infilata in bocca, per intero, e poi masticato e deglutito. “Auhmm”, ha fatto, avvitando il dito sulla guancia. “Me ne date un’altra, mammà?”
Ho visto nero, il piede è partito di riflesso. Ha trovato un fasciame di ossa, quindi una mollezza, poi il bordo di un orecchio. Dove ha visto il sole e la galassia. Mi aveva azzannato l’alluce con uno scarto di testa, da vero rettile, e continuava a digrignare. Ho stretto i denti anch’io e tirato, sentendo tutto il male di una vita senza anestesia.
“T’ammazzo, quant’è vero cristo”.
Ho mirato al ventre, proseguito col volto e menato alla cieca. L’avrei ucciso, col plauso di tutte le mie voglie, se il fiotto di liquame – caldo, color cioccolata, nauseabondo - non avesse inondato pavimento e piede.
Vomito, sangue, pezzi di tabacco: tutto l’inferno che aveva in corpo, ha sbrodolato. Ed io, sopra di lui, a seguire inerme quel dilagare, una bava viscida, emessa in silenzio, che gocciolava sul giubbino. L’ho tirato per le ascelle, trascinato sul letto e sistemato alla meglio.
“Parla, Gesù mio, dì qualcosa. Vuoi da bere?”
L’acqua! Sono corsa al cesso e ho aperto il rubinetto, ma non sapevo che riempire. Ho rovistato nell’armadietto, guardato sotto il lavandino, dietro il vaso. Zero. “Che faccio? questo mi crepa tra le mani”.
Sono rientrata, il tempo di accorgermi che era bianco come mia nonna appena morta, e ho visto le mie scarpe. Non so, quando perdi le cognizioni ti vengono strane idee. ‘Gli butto un po’ di acqua in faccia!’, ho realizzato. Allora ho presa una scarpa, sono tornata in bagno e ho riempito. L’idea più ottusa che abbia mai avuto.
In principio suola e cucitura hanno retto, stavo per compiacere il mio genio quando c’è stato l’innaffio, una granata di zampilli con la scarpa in veste di erogatore. Avrei voluto urlare, prendermi a schiaffi, fare qualunque cosa, purché servisse: la stringevo sui bordi e lei a irridere coi suoi getti. Ma il mio genio intendeva saziarsi. Via la scarpa e ho sfilato il reggipetto. Eggià, le coppe! sistemo una nell’altra, le fodero di carta igienica e il gioco è fatto. Sì, fatto a marjuana, un colabrodo in pizzo, buono per filtrare il caffè alla turca. A questo secondo smacco ne è seguito un terzo, dovuto alla premonizione - idiota, pervicace, irrazionale - che la seconda scarpa resistesse. Ma figurarsi, mi sentivo morire. Ho guardato allo specchio e osservato la seguente scena: di una disperata imbecille – capelli pazzi e occhi assassini – che mi fissava stravolta, scarpa nel pugno e reggiseno a tracolla. “Stupida buona a nulla, deficiente”. Ho scagliato scarpa e reggipoppe contro il muro e sono tornata a controllare. Nessuno, il principe dei miei incubi era svanito.
“Dove sei? ti prego, non scherzare”
Silenzio.
“Dai, lo so che sei nascosto, sei sotto il tavolino”.
Scarica di gorgoglii, sordi e bronchiali, provenienti dal versante opposto della branda.
Un balzo, il tavolino all’aria e ho visto due gambe di traverso, la fistola di un ombelico tra calzone e giubbino e poi basta.
“Mammà, datemi la medicina”.
Il gemito proveniva dalla testa, andata a sistemarsi a casa Guardaccione. Ci sono entrata anch’io e ho scovato il viso, bianco come un cero di candelora, le palpebre, socchiuse come una saracinesca a lutto, e la bocca, serrata in una smorfia dalla quale, a un tratto, ha esploso pernacchiette.
Mentre lo issavo fianco, seno e testa mi hanno avvisato che la rabbia non sempre può su tutto. L’ho tirato per i piedi, afferrato alle ascelle e caricato in spalla. Stavo per scaraventarlo a letto e lasciarmi cadere – andasse, andasse a crepare all’inferno dei pazzi - quando mi è venuto in mente il pappagallo. Non avevo pensato ad un suo apporto, vuoi perché mi fa senso in assoluto sia perché è un omaggio all’inutilità maschile. Mi sono sporta nella vasca, l’ho stretto per il collo, riempito fino al glande e barcollato al letto. Postami a cavalcioni del mio matto ho mirato alla testa. Non soddisfatta, l’ho preso anche a schiaffi, una scarica di ceffoni col dorso della mano. ‘Muoviti, animale, dimmi che ci sei’. Morti, stecchiti: i suoi spiriti intestini e quella carcassa che funge da contenitore. E tuttavia ho continuato a implorare “Ti supplico, dimmi una cosa, una soltanto”. Il brivido alla pancia è salito alla testa, dove ha virato in capogiro. Allora sono passata ai pizzicotti, spicci, furenti, sino a sentirmi male io per lui. Quando già singhiozzavo, le braccia inerti lungo i fianchi, sto brutto mondo che girava a trottola, ha aperto gli occhi, espulso un filo di tabacco e sospirato: “Quanto siete bella, signora Guardaccione”.
“Come ti chiami?”, ho chiesto, e va a capirne il motivo.
“Palmieri!”
“Lo sai che ti strozzerei?”, gli ho carezzato la fronte.
“E voi me le date le sigarette?”.
“Quante ne vuoi”.
“No-oh, mo’ viene la terapia”.
“La terapia?”
“E certo, non avete visto che sta facendo notte?”
Ho guardato alla finestra e convenuto che aveva ragione. “Che ore sono?”
Erano le cinque e un quarto, a seguire le lancette, e il tre di gennaio, secondo il datario. In quell’istante, seminuda su lui, ho realizzato di aver dormito due giorni di fila, di essere sul letto inzuppato di un manicomio - tra vomito, sangue e porcheria - e nella posizione di chi lo fa di sopra. Dimenticavo il tanfo di sperma. Non l’ho sentito. Forse mi ero assuefatta.
Il mio amante a tutto questo non ha minimamente riflettuto. Ha incrociato le mani al petto e sorriso beato:
“Posso venire domani? Non dite niente a Sparenza?”
“Sparenza, chi è?”
“Come, non sapete chi è Sparenza?”
Ha scosso il capo, divertito.
“Aveva ragione Guardaccione, me lo diceva sempre: mammà non si informa mai di che succede qua dentro”. Assicuratosi con un’occhiata che nessuno ascoltasse, si è issato fino ai miei capezzoli e assunto l’aria di chi svela un segreto astrale: “Sparenza è il direttore. P’ammore e ddio, signora Guardaccione, non lo nominiamo, porta o maluocchio!”
“E dai, Palmieri”, gli ho dato un buffetto.
Ha offuscato gli occhi, li ha riaccesi e proseguito per i fatti suoi: “ma figuriamoci se vostro figlio non ve l’ha detto, a me non mi fate fesso!”
Chi invece continuava a prendermi per fessa era il capogiro. Andava guadagnando in ampiezza, perciò mi sono trascinata in bagno a recuperare il reggiseno. Temevo che la sua mancanza provocasse nuovo puzzo, o qualcos’altro che non volevo nemmeno ipotizzare. L’ho infilato così com’era, spellando mucillagine dalle coppe, e sono rientrata. Palmieri stava accreditando le previsioni.
“Animale! vuoi morire?”, ho strillato per lo schifo.
E’ stato il colpo di grazia. L’istante successivo mi trovavo in groppa a un cavalluccio, che girava girava, mentre nonna Pappa implorava: ”E fermatela, sta cazzarola e’ giostra, a piccerella se sente male”.
Anche Palmieri ha percepito qualcosa. Ha interrotto l’operazione e mi ha guardato, col corno rosso e curvo fra le dita.
“Mammà, vi sentite male?”
“Levati, che mi sdraio”.
Mi sono stesa e lasciata andare: la boccia, i cavallucci e nonna Pippa giravano al galoppo. “Chiama qualcuno, vai”, ho sussurrato. E’ schizzato via, col corno che fuoriusciva dalla patta, e ha portato le mani al viso.
“Mammà che fate? Uuh, mammà è uscita pazza. Gesù, guardate”.
“Vammi a chiamare qualcuno, ti dico”. Devo avere sputato l’ultima bava di fiele. Tant’è che ha preso a darsi graffi e frignare. “Mammà c’ho paura, non morite”. La supplica è divenuta pianto appena si è accorto che farfugliavo. Allora si è precipitato alla porta e l’ha tempestata di pugni e calci “Aiuto, venite! E’ morta la signora Guardaccione!”
L’avrebbe fracassata se, di lì a poco, non fossero accorsi due molossi, seguiti da una terza figura, che ha ordinato “Al tre, svelti”. Mi erano addosso e stavano per sollevarmi come il sacco della befana quando ho sentito l’altro imprecare “Non lei, questo qui!”
Si riferiva a Palmieri che, approfittando della confusione, si era sfilato tuta e pantaloni e faceva il girotondo su se stesso. Mentre ruotavo anch’io ho scorto il guizzo di una cinghia, una tempesta di nocche sull’apice di un cranio e l’ossario di Palmieri avvolto in un lenzuolo. L’avevano trascinato fuori quando ha ripreso a strepitare:
“Mammà, mi hanno rubato la sicaretta! chi è stato quel delinquento? mo’ ci do uno schiaffo!”
“Ma tu vire stu figlio e ‘ntrocchia”, ha replicato qualcuno, assestandogli una manata sul groppone, motivo per cui Palmieri ha strillato a squarciagola “Aiutateme, tengo o maluocchio!”. Schiaffi, urla e imprecazioni si sono trasferiti giù nel parco, a poco a poco sono svaniti nella macchia. Allora il terzo uomo si è mosso dal finestrino, ha tolto i ray-ban da sole e si è avvicinato alla mia fronte.
“Domani”, ha detto, fissandomi con occhi viperini. “Domani ti facciamo la terapia”.

Carlo Capone


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