RACCONTI: Palombo e Capucci


RACCONTI: Palombo e Capucci

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Il pesce palombo mi disgusta: è molle molle e sa di pomodoro. Associo il suo sapore ad un evento speciale, quando – ero sui diciotto – mi convinsi di voler bene a mio fratello Maurizio. All’epoca, non so, sorse spontaneo, oggi ritengo scaturì da un’espiazione.
Non avevo un ciclo regolare, a volte ritardava, altre anticipava, altre non veniva proprio. Andai perciò da mamma e mi confidai: la confessione più idiota che abbia fatto. Mia madre esplose in uno dei suoi sbuffi, erogò una cocente assoluzione (“è la tua testa! Non lo sai che il sangue dipende dall’umore?”) e comminò la pena: visita dal dottore della Mutua con prescrizione di trenta avemmaria alla prolattina.
Quadrato il ciclo fiorirono le idee. Io dovevo, a tutti i costi volli, voler bene a qualcuno, uno qualunque. Non l’avevo mai fatto, in famiglia, e per questo avevo il ciclo irregolare. Scartai mio padre perché è più forte di me, non ce la faccio, evitai mia madre perché il cuore l’ha sempre avuto in quel certo posto, insomma approdai a Maurizio per infarto affettivo. Sì, ma come fare? In che modo ricondurmi a lui tramite cure? La gola! - mi illuminai una notte - gli uomini si pigliano per quel verso. Se veramente li avessi conosciuti - gli uomini, intendo dire - avrei dovuto sapere che si pigliano per le chiappe. Ma lasciamo stare.
Dopo svariato ruminare concretizzai il piano d’azione. Disertare cena con i miei – tanto a tavola parlavano come se non ci fossi, oppure non parlavano affatto, proprio perché c’ero io- aspettare, dicevo, le dieci e passa, ricomporre il desco coi fiorellini - le fresie, e dunque era primavera!- poi correre in cucina a ispezionare. E qui si ergeva l’ostacolo Dolores, la governante di cotal famiglia. Già non le andava un lavoro extra, perché i miei le pagavano vitto e alloggio senza il becco d’altra lira, già smaniava di rifugiarsi in camera per guardare i filmetti del dopo cena, figurarsi attendere a un menu diverso. Essì, perché Maurizio, diversamente da me e i suoi, prediligeva il citato rettile in tortiera, o le interiora di vacca e pollastro, in aggiunta a un’antica e mai estinta brama per il muso di porco.
La prima sera restò da fesso – e fin qui tutto normale – appena entrò in sala. “Sorpresa!”, l’accolsi con la più ovvia delle facce, “ti va se ceniamo insieme?”
Maurizio muoveva i primi passi nell’azienda del padre, uguali a quelli trasandati e goffi da poco risuonati in giardino. Accennò una smorfia, a mezzo tra fastidio e noia, e fece ‘prego’, come a sottendere ‘spicciati e mangiamo ’. Poi sedette in giacca e sgranò gli occhiuzzi come Adamo. Con una differenza: al posto della mela, polpe di pomodoro e brani di pesce. E invece di Eva, una sorella dal sangue irregolare.
Non toccai cibo, inibita dal disgusto e dai grugniti di Maurizio. Gli chiesi allora come andasse il lavoro, e la risposta fu un ‘buò’, a guance piene. Mai capito se alludesse al lavoro o all’apprezzamento per il pesce. Poi…poi il tempo, si sa, cancella o storce, io a domandare e lui a ingozzarsi. Ogni sera da un verso il mio parlare, dall’altro un susseguirsi di sì, buò, nh, è vero – ma in risposta a che ‘è vero’? cosa vuoi dire, animale?
Un giorno ebbi l’intuizione del regalo. Maurizio si inondava di un profumo nervino, che dava punti all’afrore del suo pesce, mi riferisco al 4711 Eau de toilette, un nome che rimanda ad altro luogo, in cui a fine pasto correva a depositare del suo. Quella sera, dunque, sedette e allungò il muso, il suo modo di esternare stupore: nel piatto, aspettando il cervello bollito, c’era una scatola in radica marrone.
“Cappucci, ti va? a me fa impazzire”.
Non mi ascoltò neppure. Svitò il tappo, pose il dito sul becco e umettò le ascelle, direttamente sulla giacca. Rialzo d’occhi e guardata di pesce: “Grazie, Carla, sei gentile”.
Dalla sua faccia avrei dovuto capire. La sera dopo, e quella oltre, e tutte le successive, il 4711 accoppò il lezzo di cervello ed il tanfo, onnipresente, del palombo in cassuola. Da allora il suo senso mi è rimasto in gola. Come Maurizio.

Carlo Capone


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