Napoli, 23 novembre ‘80


Napoli, 23 novembre ‘80

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Ieri è stato l’anniversario del terremoto. Non aggiungo altro perché a Napoli sanno a quale fra i tanti mi riferisco. Per i non partenopei il rimando al titolo di questo scritto è invece obbligatorio. E’ una data epocale, tante furono le implicazioni di carattere sociale, politico ed economico, per i singoli che patirono paura e rovina e per il Paese, che da esso scaturirono. Quanto a chi lo visse, esperienza che non auguro ad alcuno, se a costui viene chiesto dove fosse, con chi si accompagnasse, cosa stesse facendo in quei lunghi, eterni minuti, egli saprebbe raccontare tutto, per filo e per segno. Momenti di orrore sublime, istanti che non passano mai e sigillano la vita in un quadro da Giudizio. Eppure la vita, questo lucignolo ardente fra due pezzi di infinito, sa essere strana, a volte di un evento drammatico lascia impressi gli aspetti paradossali più di quelli foschi. Ed è per questo che dai ricordi di quella sera desidero estrarre un frammento grottesco. Riguarda il Dottor Carlo Cuomo, gentile persona oggi defunta.

Dunque, era domenica, una tiepida sera di novembre. Mi trovavo a casa di chi sarebbe diventata mia moglie, nell'appartamento al piano terra di un palazzetto liberty al Parco Margherita.
Si stava in sala, i suoceri erano fuori da amici ed io e mia moglie, d'ora in poi per comodità la chiamo così, sedevamo su due poltrone affiancate. Seguivamo la partita di calcio in TV delle diciannove. Quella casa era enorme, tanto da essere stata adibita ad albergo a inizio 900. Lo dico per sottolineare che aveva mura massicce, da un metro e più. Mio suocero l'aveva presa in affitto per ospitarvi moglie, 4 figli, suocera anziana e Agata con sua prole. Agata era un’agreste sorrentina che lavorava in famiglia facendo un po' di tutto: pulizie, cucinare e dama di compagnia per la nonna di mia moglie.
A un certo punto sento un colpo alla poltrona, lungo il fianco, ma non ci faccio caso. Fin tanto che, di lì a pochissimo, la spinta non si ripete, stavolta forte. Penso sia stata mia moglie, e le dico. "La finisci?". Lei: "Non ho fatto niente, che dici". "E allora sono i fantasmi? l'ho sentita io la bo...". Manco il tempo di finire e la credenza con piatti, bicchieri e tazzine prende a tintinnare, un suono così acuto che sembra sul serio opera di spettri. Per istinto guardo in alto, il lampadario oscilla come un turibolo da incenso. Balziamo in piedi, senza neanche esclamare: "il terremoto!" (perché i meridionali la percezione del sisma ce l'hanno nel sangue). Schizziamo dai posti, dicevo, e stentiamo a tenerci. "Scappaaaaa", faccio a mia moglie. "No, la nonna!", fa lei. Dal buio di una vicina sala in quel momento sbucano la nonna, Agata, e uno dei figli. Agata dice parole e si agita, la nonna no, si tiene un po' al suo braccio e chiede “Cosa è successo?”. Balliamo come matti, ecco che accade, le pareti danno sinistri scricchiolii. Inizio a gelare anzi, visto che la truppa non fa un passo, mi infurio: "fuori, usciamo fuori!". "Eeeeh, che maniere", fa la nonna, che ha ottantanni e se ne frega.
Il corridoio che conduce all'uscio sarà stato lungo una dozzina di metri. Avanzo trascinando il corteo e vedo il lume al soffitto: è una pendola che oscilla all’impazzata. Dico a mia moglie, che ora aiuta Agata a sostenere la nonna : "Santiddio, qui crolla tutto", e apro la porta. Oltre la quale ci attendono pochi gradini in salita, poi un breve pianerottolo e infine una discesa di due rampe, da cui si percorrerà un vialetto verso il cancello di uscita. La nonna fa la prima tesa ma sulla seconda si pianta: "lasciatemi qua – supplica - non tiratemi, andate". Risalgo le scale che avevo già disceso e dico a mia moglie: "Fai presto, più veloce". Ci guardiamo, ha il viso bianco e gli occhi fissi. Allora prendo la nonna in braccio e mi avvio ma fine discesa non la tengo più e la rimetto in piedi. Ora camminiamo lungo il vialetto - ma lenti, troppo lenti perdio- e così facendo vedo il palazzo di fianco che fa così e così, come un giunco al vento. Intorno strilla ovattate, antifurto inceppati e clacson di auto. Ma il cancello è lontano, il palazzo di lato, un mammone anch'esso stile liberty, si muove e rimuove, e io penso di morire. Ma Dio non vuole, fa sì che arriviamo alla strada. C'è gente, qualcuno piange, altri stanno zitti, inebetiti, mentre un signore ascolta la radiolina. Un respiro di sollievo (siamo vivi!) e si torna a ballare, ma stavolta dura meno. Ora la strada è un caos, folla sul marciapiede, auto che sfrecciano, gente che esce stralunata dai portoni. Di fronte abita un amico di famiglia, collega di mio padre, da qualche tempo in pensione. E' un gentiluomo appassionato d'arte. Tanto per dire aveva un fondo a Sant'Antonio Abbate e scavando le fogne per la masseria scoprì una villa pompeiana. La Sovrintendenza non aveva soldi e avrebbe bloccato tutto. Ci penso io, disse Carlo Cuomo, e di sua tasca portò alla luce il ben di Dio. La Sovrintendenza prese vasi e gioielli e gli lasciò tre scheletri, un mosaico e i ruderi perimetrali.

Dunque, lo vedo uscire dal suo palazzo, è in pantofole e indossa una giacca da camera sul pigiama. Mi vede, fa un segno con la mano e attraversa. Ora non so, non ricordo che disse ma mentre parla lo guardo, null’altro, e credo di aver fatto così per la tensione del momento, non per altro. Lui allora si blocca, garda stupito il cielo, poi infila la mano nella tasca e vi estrae qualcosa, che mette in bocca subito, girandosi un po' per non farsi vedere. E' la dentiera, pover'uomo, nell'atto di scappare ad essa solo ha pensato.


Carlo Capone







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