IL GUERRIERO - Racconto di Carlo Capone


IL GUERRIERO - Racconto di Carlo Capone

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erba nel pratoAspettavo un amico in un campo di Briga, le suole nel fango e il cappuccio alla fronte. C’era pioggia quel pomeriggio benedetto, l’acqua cadeva silenziosa. Come la gente di queste parti, mi venne da riflettere. “Come il guerriero sepolto qui sotto”, mi lesse dentro Gilberto, venendomi incontro. Scoppiai a ridere e presi a burlare:
“Dormi sepolto in un campo di grano, non è la rosa non è il melograno …”
Non volevo ferire la sua passione per l’archeologia, lo giuro, mi uscì di getto, vuoi perché al guerriero celtico sepolto in quel campo non credevo e sia per il misto di paura e ilarità di fronte al mistero.
Gilberto mi fissò truce. Aveva gli occhi dipinti come il cielo: grigi e stizziti.
“Guarda che è una cosa seria”.
Indicò un boschetto a qualche passo. “Lo vedi quel cippo?”
“No”
Non distinguevo un accidente, uno sciame di gocce mi solcava le lenti. “Quella specie di pietra?”, domandai distratto. Di un fanatico, di un pazzo che scava anche in giardino, ecco di chi mi ero fidato.
“Sarebbe una tomba?”, domandai studiando i mocassini. Temevo per le scarpe, altro che celti.
Gilberto non replicò. Per lunghi e umidi istanti si studiò le galosce – gialle, sgargianti, pertinenti all’impresa- e credetti volesse insultarmi. Invece alzò piano la testa e accennò in direzione del bosco. “Dai, andiamo”.
Annuii, restituendo lo sguardo. Aveva le palpebre socchiuse, mai capito se a causa della pioggia o di un moto di stizza. Sta a vedere si era offeso. Calmo, tranquillo, nessuno te lo toglie il tuo guerriero. Avanzammo su un battuto in direzione del bosco, un inferno di buche e di trappole: i mocassini imbarcavano acqua e lanciavano esseoesse. Tirarono le cuoia durante la traversata del faggeto. Socchiusi anch’io gli occhi, inviperito, e nel riaprirli scorsi qualcosa
C’era una pietra triangolare in centro radura, un ciottolo grigio e alto poche dita infisso nella terra. “Tutto qui?”, dissi. Sì, tutto lì, un capriccio minerale della natura, l’esito fortuito di un lavoro distratto, peggio: una mattana di Gilberto. Eppure…
…eppure, a un’attenta osservazione, quel ciottolo svelava un’intima ragione di esistere, insomma appariva funzionale a uno scopo. Intanto mostrava segni di lavorazione. I bordi dell’isoscele, ad esempio, risultavano lisci, esenti da ruvidezze. Ma era la sua posizione che incuriosiva. Una pietra qualunque, un frammento staccatosi dalla roccia, non va a conficcarsi in quel modo nel terreno.
Gilberto avvertì la mia esitazione. “E’ piantato lungo il lato di base, in modo del tutto regolare”.
“Certo, su questo non ci piove”. E dai, non volevo, mi era uscito per caso.
“Se ci fai caso”, sorvolò, anzi accalorandosi come un tacchino, “è l’unica del bosco. Hai visto? No? E guardati intorno ”. Parlava così, ponendo domande e fornendosi le risposte.
L’istante successivo, senza avermi dato l’agio di osservare, e sotto una pioggia battente e selvaggia, cavò di sacca una specie di cavatappi, un lungo tondino con punta elicoidale e manubrio sulla cima. Anche su quell’arnese, e più ancora sull’uso che ne andava facendo, avrei avuto da malignare. Con una spinta secca e decisa lo aveva conficcato nella mota, per metà dello stelo, quindi, con identica furia, l’aveva estratto, e poi infilato, e di nuovo ritratto. Insomma uno stantuffo umano con appendice ferrosa. Avrei avuto da sorridere, dicevo, ma non lo feci. La pioggia aveva smesso di battere, sbrodolava con cupa lentezza, come avesse sbollito la rabbia ma non si rassegnasse.
“Hai sentito?”
Un gemito, qualcosa di simile a un sospiro.
Guardai in basso e inquadrai la seguente scena. Gilberto era curvo in avanti, a gambe divaricate nella posizione del cesso alla turca e i pugni al manubrio. Ma la faccia! La faccia, distorta nel gesto di protendere il mento, mi apparve stravolta, diversa dal viso a me noto. Era atteggiata in una smorfia febbrile, come quella del bracconiere sulla preda.
“Hai sentito?”.
Aveva dato un colpo di stantuffo arrestandosi a metà tiro.
Decisi di avvicinarmi, incerto se scoppiare a ridere o lasciarmi sopraffare da un brivido: elettrico, emerso all’improvviso, per niente ordinario. Poiché non amo manifestare le mie debolezze, qualunque causa le sveli, risposi piccato.
“Non ho sentito un bel niente”.
Glielo dissi forzando il tono, in modo innaturale; allarmato, direi. Gilberto non capì. Mi afferrò una mano, poi l’altra, e mi impose, le sue sulle mie, di impugnare l’attrezzo. Al resto ci pensai io, stantuffando nel modo che avevo visto .
L’impatto con un che di consistente mi prese alla sprovvista. I suoi esiti sciamarono svelti, rigando lo stomaco, fin quasi alla gola. A un passo dal cippo, sotto un palmo di terra, si avvertiva qualcosa. Mi arrestai, anch’io nella postura da cesso alla turca, e lo fissai, a bocca semiaperta. “Dammi qui”, fu la replica, e mi scacciò dal manubrio. Per estrarre con forza il cavatappi e ripetere il sondaggio, stavolta più a destra.
Di nuovo quel tonfo. Sordo, ovattato, minaccioso.
Diversi sondaggi più tardi, tutti castrati dal medesimo urto, eravamo entrambi nel fango a scavare con le unghie ed i gomiti. Come cani.
La lastra affiorò dopo un’ultima rasatura di cazzuolino, il ridicolo ma liturgico arnese usato dagli archeologi per rimuovere il terreno. Appena fu in vista vi posai la mano e lisciai. La pietra era priva di scabrezze ma butterata da ampi crateri. Colpi di mazza e scalpello, senza dubbio. Come del resto ero ormai certo che lì sotto ci fosse una tomba. Non del guerriero delle fantasie del mio amico, questo no. Di un poveraccio qualunque, piuttosto, vissuto e morto millenni fa.
Sollevammo la lastra con la cura di una levatrice. “La scatola!”, strillò Gilberto alla fine del parto, come un bimbo che rompe l’uovo di Pasqua. Ci avventammo col muso nella buca e guardammo la sorpresa. Dal fango era emerso un solco grigiastro, di forma quadrata, i cui bordi ricordavano quelli del cippo: lisci, con le consuete increspature. “La scatola?”, alzai il viso come un ebete sino per sfiorargli la bocca. Respirava a fatica, ne sentivo l’alito alla menta liquirizia. “La scatola litica”, annuì a voce bassa mentre ci alzavamo: increduli, intirizziti, la faccia di lui e le mie lenti rigate di sporco.
Mi spiegò tutto. Scavavano una buca, la foderavano con lastre di selce lavorata e nel mezzo deponevano l’urna con le ceneri del defunto, quella appena sollevata fungendo da coperchio. Infine il cippo, l’equivalente della nostra croce. “Piano, accidenti, pianoooo!”. Senza attendere istruzioni mi ero messo a scavare. “Sta fermo, dai qua!”, mi strappò di mano il cazzuolino, infilando a sua volta il collo nel fosso. “Rischi di spaccare tutto”. Con riferimento all’urna, suppongo.
Poiché aveva smesso di piovere e per incanto era spuntato il sole- coi suoi raggi fiacchi, obliqui, espulsi da occidente- e poiché ero stufo della saccenteria di quel profanatore, mi rizzai in piedi per sgranchirmi le ossa.
Accesi una sigaretta e fissai il tramonto. Per un tempo che adesso giudico breve ma che allora mi parve indefinito.
Il latrato del cane e la visione di Gilberto- in ginocchio, con il volto all’insù, le mani giunte - funsero da scossa.. Provai a riacquistare il controllo dei fatti: “Ti sono venuti i sensi di colpa? stai pregando per la sua anima?”. Nessuna risposta, se si eccettua il verso del cane. Che insisteva ad abbaiare, ma senza cattiveria, quasi intendesse solo avvertirci. Basta, ero stufo di quella situazione: il cippo, la tomba, le scarpe, ed ora anche frate Gilberto. Stavo per esplodere quando un altro sovrapporsi di immagini mi svelò, in rapida sequenza, dapprima Gilberto che si affannava sul fosso e poi una sagoma tra le ombre del bosco che seguiva la scena.
Anche questo non so spiegare, di certo mi venne spontaneo, insomma gli feci così con la mano. Quel tizio e il suo cane ispiravano sicurezza. “Fesso!”, urlò invece il mio amico, “è il pastore, il padrone del campo. Se scopre che veniamo a scavare ci denuncia!”. Aveva spedito all’inferno Celti requiem e sensi di colpa e ora pestava coi piedi la buonanima del buco. Mentre raccoglieva gli attrezzi osservai ancora il cosiddetto pastore. “Sei sicuro sia uno del posto?”, chiesi alle mie spalle. Quell’uomo vestiva in modo a dir poco singolare: tunica in pelle sul busto, cinta di corda in vita con fibbia e calzoni abbondanti in tela di sacco. “Chi vuoi che sia, il guerriero?”, rispose acido Gilberto, spingendomi a forza sul sentiero di accesso.
Durante il cammino- una sorta di fuga in Egitto, sotto un diluvio di via via via ! e quant’altro – il cane abbaiò a intervalli regolari. Stavo per ficcarmi nel fuoristrada quando un fischio tagliente lo zittì di colpo. Mi voltai e vidi l’uomo che scuoteva il braccio. Lo agitò più volte, in segno di saluto, ma questo l’ho capito soltanto adesso.
Non so, sarà un capriccio del sonno. Ma nelle notti di inverno, quando mi sveglio all’improvviso con il cuore che batte, e la pioggia di fuori picchia peggio di lui, in quelle notti, dicevo, mi alzo e corro a guardare. Dalla finestra in collina frugo allora nel grembo di Borgomanero. Fra i tetti, le vie, i due campanili- quello smilzo e gentile di San Gottardo o quell’altro robusto ma austero della piazza- in cerca di chi so già essermi amico. Pochi istanti e sento il fischio, cui fa seguito un abbaiare lontano. Le due ombre sono lì, nel silenzio dei due Corsi, incuranti dell’acqua, mentre spiccano balzi sulle pozze e rivaleggiano a chi salta più in alto. Una gara vinta dal cane, ma l’uomo non sembra crucciarsi. Curvatosi in basso, l’attira al viso, lo cinge per il busto e gli ripone la guancia sul dorso. Per un tempo che giudico infinito li osservo in controluce, come statue muscose di una Pietà silvestre . Ma è un lampo. Dopo il quale li vedo staccarsi e riprendere il gioco: lontani, leggeri, a balzi più ampi. Fin che il sonno li inghiotte e i colpi svaniscono.

Carlo Capone



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