EDITORIALE : NON CAMBIA MAI!


EDITORIALE : NON CAMBIA MAI!

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ItaliaDescrivere un paese che cambia, e al tempo stesso appare immutabile, marcarne gli esatti riguardi è sfida dantesca. Nel senso che a imbastire strumenti per seguirne ‘canoscenza’ si rischia la fine di Ulisse. Con una restrizione. Invece della morte per mare ci aspetta il buio di un limbo, un non luogo di tracce duali, figure labirintiche e incerti accaduti...

Da sempre mi chiedo che paese sia il nostro, se possegga un ubi consistam cui riferirsi, e in quale misura, marcati quei ‘riguardi’, possiamo definirci suoi figli legittimi. Un disastro. Se onestà, intelligenza del bene e candore d’impegno costringono all’esclusione, e doppiezza, esperienza del male, accattivante simpatia sono attributi vitali, rassegniamoci: siamo stranieri. Ma in quale misura? davvero possiamo definirci seme spurio? O magari, pur diversi nel modo di intendere l’essere, siamo uguali fratelli come recita l’inno? La risposta è affermativa, sia destri che sinistri, sia puri che rotti, rechiamo tutti un identico marchio. Amiamo cioè apparire, ci piacciono gli istrioni e i fondali di carta, e poniamo calvinismo e azionisti al pari di insetti, repellenti coleotteri da schiacciare di notte. Che sarebbe della ragione, se al buio non opponessimo la luce abbagliante dell’istinto bacchico.
Negli anni 60 fui felice di imbattermi in un libro epocale, un’indagine fra il letterario e il giornalistico i cui esiti conservo tuttora. Quel libro fu scritto da Luigi Barzini e si intitolava, banalmente, ‘Gli Italiani’. In esso l’autore rivisita il carattere patrio attraverso gesta e inclinazioni di importanti figure e conclude ravvisando nella sconfitta di Fornovo l’incidente che ci dissuase dal diventare nazione.
Tra tanti illusionisti mirabilmente descritti – perché Barzini era convinto, e come dargli torto?, che molti tra i grandi italiani, sia nel bene che nel male, ricorsero a quell’arte – tra i prestigiatori, dicevo, il cui genio malefico induce a riflessione, ci furono Mussolini e Cola di Rienzo. Sulle connotazioni istrioniche, narcisistiche, mediatiche del primo –per quanto il termine mediatico possa adattarsi a quei tempi- sul disprezzo da lui nutrito per quel popolo acclamante sappiamo tutto. Si meritarono a vicenda. Di Cola conosciamo meno, del suo analogo populismo altrettanto, della trovata di mostrarsi alla folla, anche lui da un balcone e vestito da ottimate, quasi nulla. Cosa spinge Cola, pur mosso da autentica passione per una città divenuta latrina, quale istinto lo spinge sui gradini di una crescente follia sino al più alto, la buffonata del balcone? La storia racconta che ad articolarne le azioni provvidero gli Sciarra, i Barberini e via andare. Ma per quale motivo, benché ottenebrato, decise in tal senso? Conosceva gli italiani, sapeva che amano il bell’apparire, il magnetismo dall’alto, lo scintillio dei lustrini, il fantasma di Cesare, il sacrificio del capro e il pupazzo di uno Stato. Il quale Stato, nell’accezione hegeliana, e se fosse termine greco, andrebbe declinato con l’articolo neutro: to Stato. Per molti è il participio passato del principale ausiliario.
L’Italia di oggi lascia perplessi, pur senza invogliare a rimpianti per la precedente. E’ un paese leggero, mancante dei pochi riferimenti che pure possedeva, disposto ad accettare senza imbarazzo l’avvento di oscuri e inquietanti figuri.
E’ un paese corrotto. La lotta al malaffare che segnò i primi 90 è onanismo infantile, al pari di esso sconveniente da ricordare.
E’ un paese per un terzo in mano alla mafia. E chi se ne frega! L’importante è scenderci a patti, pur di ‘combinare’. Ma per piacere! sappiamo bene che per vivere in pace bisogna piegarsi (al Nord come al Sud, e per diverse situazioni). E pazienza se in una grande città del Mezzogiorno – il Mezzogiorno? Esiste ancora un mezzogiorno all’infuori di quello del pasto?- non importa, dicevo, se in alcuni quartieri di tale città la camorra incida sulla bolletta condominiale.
E’ un paese confuso. Nell’ultimo film di Virzì una famiglia di provincia approda a Roma e si perde. Il padre, invaghito di fama e caciara, fa carte false per andare al ‘Costanzo’, la madre, in vestaglia e ciabatte, si scopre inadeguata e si ammala di nevrosi, e la figlia- smarrita tredicenne che ignora chi sia, dove stia e perché viva in quel posto- trascina i suoi giorni fra discoteche, centri sociali e feste di calciatori.
E’ un paese di incerta memoria. Troppo spesso la sua parte migliore, la componente giovanile, sa poco di Resistenza, impegno Costituente e dei grandi travagli del secolo scorso. Di cui essa è pur sempre un prodotto.
Certo, è anche il Paese delle mille associazioni. Leggevo la lettera di un’operatrice dell’Anfass, una donna che passa i suoi giorni fra i disabili mentali, e fra essi rinviene le ragioni di un impegno. Nonostante il tormento di una personale dislessia e malgrado “lo strano silenzio, gli sguardi tra schifo e stupore di tante persone quando apprendono che lavoro tra i disabili intellettivi”. Non le biasimo, conclude nel suo bellissimo scritto, per esse provo il più ignobile dei sentimenti: l’indifferenza.
E’ il Paese di Genova, la mia Genova stuprata, una città che testimonia il dissenso civile ricevendo in risposta le busse di un Gulliver cattivo, un orco furente che sfoga uzzolo di violenza e pulsione di morte su inermi e pacifici lillipuziani.
E’ il paese di tanti disgraziati a 800 euro al mese, una folla dolente sulle rive di Acheronte in attesa di imbarco sul traghetto dei miraggi, una nazione di otto milioni sconosciuta alle rotte. Rotte note ai nuovi negrieri, quando scaricano a largo di Sicilia, o sulle coste pugliesi, ben altri afflitti. Ad accoglierli c’è il Paese in cui spero, un esercito di medici, volontari, forze dell’ordine, comuni cittadini, che al disprezzo per l’altro antepone il rispetto: per chi soffre, non ha ascolto, né giaciglio, né diritto di esistere. A questa Italia generosa ci aggrappiamo come Ulisse e gridiamo: siamo uno di voi.


Carlo Capone



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