Di Elena Ferrante ignoriamo tutto. Età, luogo di nascita e fisionomia. Sappiamo però che nessuno meglio di lei sa descrivere l’animo femminile, e ci basta. C’era già riuscita con ‘L’amore molesto’, fornendo una prova amara e palpitante del rapporto di amore, invidia e gelosia che lega e divide una figlia dalla madre. Un viluppo di istinti che spinge la protagonista a inventarsi un’accusa infamante – aver sorpreso la madre con un uomo, quando era bambina – causa di una definitiva rottura familiare.
Con ‘I giorni dell’abbandono’ la Ferrante va oltre, si libera del simulacro dei giochi di mente e scruta senza veli gli abissi di una donna piantata dal marito e soggetta a un duplice assalto. La disistima per il fallimento di un legame- invero ingiusta, vista la caratura dell’uomo, un vigliacco immaturo- e l’incredibile serie di eventi in cui si dibatte.
Siamo a Torino, una Torino gelida e deserta come solo Torino sa essere a ferragosto. Una donna ancora attraente, di presumibile origine napoletana, annichilita dal trauma e dalle sue implicazioni, si trova costretta in casa per un inceppo di serratura. E siamo al principio. Un improvviso rialzo febbrile induce il figlio in convulsione, il telefono si rivela anch’esso fuori uso e il cane, il più lucido di tutti, di colpo rantola e vomita bile. Nessuno come la Ferrante ha mai saputo imbastire tanti accidenti, interiori e fattuali, legandoli col filo della disperazione e servendosi del climax di azioni scomposte, risibili, arruffate della donna -mosca impazzita in un bicchiere – per spiegarne l’inferno del cuore e il pasticcio dei farmaci della ragione. Un distillato di angoscia e parossismo, questo è il nocciolo della vicenda, un flusso di rabbia, paure e smarrimenti che sedimenterà con la morte del cane. E qui la Ferrante sembra darci una chiave. L’impasto di tensioni, ormai insostenibile, pretende che uno degli attori si immoli per gli altri, pena il disastro collettivo. Sarà un caso, ma come il cane muore, il bimbo riacquista coscienza, il telefono riprende a squillare e l’inquilino di sotto – un dolente violinista indotto in precedenza a un rapporto ferino pur di sentirsi desiderata – bussa alla porta e la sblocca.
Il tradimento, dunque. Anche in questo romanzo la Ferrante ce ne illustra gli effetti, servendosi ancora di una crisi femminile. E poi la sincronia. Un oscuro regista riverbera l’angoscia da abbandono, e i sensi di colpa di chi la subisce, col distacco delle cose in ostile congiura. Eppure il sincronico è anche dio di resurrezione, agita esseri e fatti per mettere alla prova, rifornendo la donna di linfa. La ritrovata energia, l’uscita forzosa dall’abulia e dall’autocompassione mostreranno le mete di un riscatto, spingendola a ripartire.
Magari dal timido violinista.
Carlo Capone