Recensioni: Bartolomeo di Monaco



Carlo Capone: Il naso di Pinocchio
di Bartolomeo Di Monaco

Sovera Editore

Il naso di Pinocchio - copertinaTra il 1965 e il 1966 mi trovavo, come sottotenente di complemento della Divisione Centauro, di stanza a Bellinzago, a fare servizio nel deposito militare di Gozzano. Comandavo un piccolo manipolo di carristi con i quali dovevo sorvegliare che non ci fossero pericoli per l’importante deposito, oggi non piè esistente. Disponevo i turni di guardia e procedevo a ispezionare che tutto andasse per il suo verso. Nevicava in quei giorni e la zona e la collina su cui si distendeva la recinzione di confine si erano caricate di magia. Ho sempre avuto un debole per il paesaggio innevato. Esso pare donare al nostro spirito un tocco della sua voluttà. Vicino c’è la cittadina di Borgomanero, dove con la jeep mi recavo, insieme con l’autista, a fare qualche provvista: in quei giorni, panettoni, spumante, frutta secca, in modo da ritrovarci la sera con i soldati nelle casermette (una ai piedi e una sulla sommità della collina) a festeggiare il periodo natalizio e a ricordare con un po’ di nostalgia le nostre case e la nostra vita borghese. Non avrei mai immaginato che a distanza di tanti anni, Borgomanero e Gozzano ritornassero prepotentemente alla mia memoria perchè lì a Borgomanero vive uno scrittore, Carlo Capone, che, proveniente da Napoli, napoletano purosangue ossia, ha fatto, per ragioni di lavoro, di quella cittadina così lontana la sua seconda patria.

Il titolo del romanzo, Il naso di Pinocchio, ha peraltro una così stretta relazione con la mia terra di Lucchesia (il paese Collodi, che ha dato il nome d’arte a Carlo Lorenzini, è stato lucchese fino al 1929) fino al punto che tanto l’autore quanto il libro hanno finito per rappresentare una irresistibile attrazione. Ogni volta che finivo di leggere un libro, mi aspettavo con ansia di veder emergere dalla pila di quelli in attesa la sua copertina a segnalarmi che ora era finalmente arrivato il suo turno. Ci siamo, dunque, amico Carlo. Vediamo fin dove arriva e che cosa ci combina questo leggendario naso di Pinocchio.
Capone ci tuffa subito in un’atmosfera surreale, con una scrittura metaforica, così che la mente del lettore si trasferisce in una specie di limbo nel quale ha dimora una realtà in via di mutazione. Il protagonista, che all’inizio conosciamo con il nome di Michele Marinelli, è in cerca di uno psichiatra che gli conceda una visita urgente, che gli dica, insomma, se è diventato matto; è oppresso, angariato da un orso, che lo segue dappertutto. Non v’è dubbio che questo orso misterioso, goloso di cannoli quanto il protagonista, ha tutta la parvenza di un alter ego dominatore, di un folletto della sua fantasia, e perfino, qualche volta, di un Mefistofele, il cui unico scopo è quello di divertirsi alle sue spalle, confonderlo e, soprattutto, togliergli ogni illusione: "C’era l’orso, oltre la barriera. Aveva gli occhi iniettati di sangue e faceva orrendi gesti di morte."; "rispuntòla bestia: vestiva paramenti a lutto, impugnava falce e turibolo e agitava un cannolo." È la sua ombra. Michele presta lavoro in una fabbrica, la Anonima Berilli, che produce "berillio radioattivo per macchine radiografiche" e a lui è affidata la responsabilità dei severi controlli. Ha a che fare con Hans Lo Cocco, il padrone, il cui genitore si è arricchito in Germania come magliaro, ed ora lui ha pensato bene, morto il padre, di investire il "malloppo" in Italia. Capone, come altri scrittori, ad esempio Parise, Volponi, Ottieri, ci guida dentro la realtà di una fabbrica dei nostri tempi e lungo le contaminazioni che le esigenze dell’efficienza e della produttività hanno sulla vita degli individui, in nome delle quali le disfunzioni e gli illeciti aziendali sono sempre tollerati, anche quando causano malattia e morte. Produrre, produrre e ancora produrre è la consegna dei nostri tempi, e al fine di impedire qualsiasi intralcio all’obiettivo, sono ammesse le bugie, le connivenze, i mascheramenti. È in questa fabbrica che noi cominciamo a vedere delinearsi l’ombra del naso di Pinocchio. Tutto ciòè la causa dello smarrimento e della perdita di identità del protagonista. Fosco (nomen omen) De Giuli è lo psichiatra a cui si rivolge in un primo tempo, ma: "questo è piè matto di me". Capone usa l’ironia come arma di analisi, cercando di evitare la sponda del moralismo tedioso e inefficace. Ha scelto di mostrare il lato ridicolo di una umanità che fabbrica la sua propria alienazione, e ci viene spontaneo avvicinare il suo protagonista a quello Snàporaz che ne La città delle donne, il bel film di Fellini del 1979, non si raccapezza piè , trovandosi all’improvviso immerso in una realtà imprevista, immaginifica e allucinante. Capone ci racconta, dunque, la storia di una alienazione prodotta dalla modernità. Il suo scopo resta quello di mostrare al lettore che se la nostra così incensata e sussiegosa realtà venisse osservata da un occhio incline al sorriso, non v’è dubbio che ci si scompiscerebbe tutti dal ridere, proprio come Rolando, il cane del padrone, che non fa altro che entrare in fabbrica – sebbene l’accesso gli sia vietato - e spargere pipì dappertutto: "il cane con la tubisteria pronta all’innaffio." Cambia psichiatra e va da Lè cia Massoni ("Piatta di busto, incipiente calvizie"), che non è da meno dell’altro. Fobie, ossessioni, tutte comiche e surreali, prendono forma nella stanza della psichiatra, che altro non rappresentano se non i regesti di una contaminazione annidata nella sua mente. Come succede a Don Chisciotte – il quale, dunque, tanto nella letteratura che nel cinema, ha dato innumerevoli spunti a molti artisti ed è il simbolo, ormai, delle alienazioni di ogni tempo -, tutto si modifica davanti a lui. La psichiatra diventa il padrone Lo Cocco, il cane Rolando agita furioso la testa "come una clava", e per ogni dove l’orso, assumendo le posizioni e i comportamenti piè strani, si diverte ad assistere e a prendersi gioco di lui. Non c’è momento e luogo in cui lo possa fuggire. Lo vede perfino fare l’amore con la sua dottoressa: "Li sentiva i sospiri di piacere, i guaiti, l’inequivocabile cigolio della poltrona." Ci pare di vedere nel protagonista Michele le ossessioni di Salvador Dalì e le architetture di Magritte fuse insieme.

La cura della psichiatra, anzichè guarirlo, produce l’effetto di moltiplicare gli orsi che lo perseguitano. Ora è addirittura una banda di orsi che, a bordo di un maggiolino; "lo braccava ogni sera in autostrada. Sbucavano dalla siepe spartitraffico e sfoggiavano il repertorio del teppista provetto: sorpassi a destra, speronamenti, sputi sul finestrino." Ad essi si aggiunge perfino una strega, "la strega Nocciola." Volete vedere una delle tante mascherature in cui gli si presenta davanti l’orso?: "in tuba, scarpe lucenti e zeppa all’occhiello della marsina. Stringeva un grosso avana fra le dita e accennava un tip tap da ballerino." A poco a poco la figura dell’orso s’ingigantisce nel romanzo e le sue varie forme assumono la valenza di una patologia radicata che nemmeno le sedute presso la psichiatra riescono a lenire. Sembra che gli eccessi del modernismo, le sue bugie propalate pur di rispettare tutti i comandamenti del profitto, abbiano creato in Michele uno sfasamento, un delirio che lo hanno rimbalzato fuori dal suo proprio mondo intelligibile, ed ora naviga a vista dentro una realtà speciale a causa della quale nè lui nè noi potremo essere mai piè ciòche siamo stati. Capone è partito dalle tare della fabbrica per analizzarne le conseguenze al suo esterno e mostrare come la piccola storia di una fabbrica – appena un granello di sabbia in un deserto – possa ripercuotersi con una tale intensità e una tale virulenza sul rapporto uomo – realtà. Michele trasforma così il suo orso in una persona come lui, e della cui esistenza non dubita. Conversano, litigano, il piè delle volte sono in conflitto tra loro. L’orso si è innamorato della psichiatra, ne è geloso. La fa pedinare e teme che abbia un altro. Si apre un mondo nuovo, insomma, in cui le regole-non regole vengono dettate dall’inconscio devastato. Capone ne approfitta per dilagare con il suo umorismo e per presentarci una successione di gag surreali che rendono spassoso il contagio con il mondo creato dalla sua scrittura. Diciamo creato dalla sua scrittura, piuttosto che dalla sua fantasia, in quanto lo stile che pervade il romanzo ha una sua plasticità che lo conforma sempre puntualmente all’universo allucinato in cui i personaggi si muovono. I quali diventano lo specchio esemplare di tali allucinazioni, a partire dall’orso, dal cane Rolando, dal padrone Lo Cocco, dalla psichiatra, fino ad arrivare ai compagni Corrado e Lepre, all’ex fidanzata Carolina, all’investigatore Gesualdo Corniglia ("era un ometto smilzo, curvo come un amo e con papillon tricolore su gessato scuro."), al corruttibile commissario Petraccone, al "responsabile finanziario della ditta", Germinale Magnavacca (sposato a "una costosa baldracca anseatica con relazioni a Mosca e Pietroburgo."), e fino a travolgere lo stesso protagonista, la cui identità, in questo scombussolamento, si rigenera soltanto a ritroso, nei momenti in cui, piè di una volta, la mente regredisce ai ricordi dell’infanzia. Quando entra in scena il commissario Petraccone ("avvolto in un alone fluorescente."), il quale per chiudere un occhio sull’inquinamento radioattivo prodotto dalla fabbrica chiede una mazzetta "in lingua arcana." - il personaggio mi ricorda l’eccellente Enrico Maria Salerno nei panni del monaco Zenone nel film di Mario Monicelli: L’armata Brancaleone, del 1966, in cui il protagonista è, ancora una volta, un altro Don Chisciotte - noi sappiamo che il naso di Pinocchio si è fatto così lungo e così grande da occupare ogni pertugio della società. Il naso di Pinocchio è diventato, ahimè, il nostro cielo; ovunque cerchiamo di andare, comunque cerchiamo di agire, esso grava su di noi. Le peripezie a cui va incontro il protagonista si susseguono, infatti, imbrigliandolo come dentro una matassa via via sempre piè inestricabile. Imbranato come il Fantozzi di Paolo Villaggio, gli rubano la mazzetta destinata al commissario e quindi Lo Cocco, il padrone della fabbrica, si vede comminata una multa salatissima "inflitta da Petraccone per disastro colposo e attentato all’incolumità della specie" .
Licenziato in tronco, le disavventure di Michele, come per Don Chisciotte, diventano ancora piè allucinanti in un percorso verso una irriducibile alienazione disseminato di brani di vita tracciati con il segno del paradosso e della ironia piè feroce. Ad un tratto, tutto muta. Ci troviamo di fronte a Isa, (Adalgisa Scannapieco, un medico) che racconta come un certo Gabriele Cominelli, persona rispettabilissima, è finito sulla strada, e come, essendone stata l’amante, se lo vide comparire sull’uscio di casa irriconoscibile, simile in tutto ad una bestia: "portava una barba ispida e folta che occultava l’intero viso, fin su agli zigomi, lasciando liberi naso e labbra. Appena lo vidi non riuscii a trattenere un urletto isterico, tanto da farmi istintivamente da parte." Entrato in casa, costui continua a parlare con qualcuno che la donna non riesce a vedere. Ma noi sappiamo che si tratta sempre dell’orso che abbiamo imparato a conoscere, simbolo dello scherno e della alienazione. Finalmente, l’orso appare anche alla donna, ma nella forma di un giocattolo che l’uomo ha nascosto nel giaccone e che, caduto a terra da una tasca, si rivela come una di quelle "cianfrusaglie che compri per i figli degli amici quando non sai cosa regalare"; "Fatto bene, su questo nulla da dire, carino assai, tutto dipinto di celeste: occhi furbini, musetto coi baffi, le orecchie a sventola e i dentoni. [...] un frullato di tanti graziosi animaletti, vagamente antropomorfo". Ebbene, in questa realtà divenuta fluttuante e bugiarda, il giocattolino bizzarro, l’orsacchiotto ossia, è il solo punto di contatto tra i flussi di una personalità contaminata. Lo scioglimento dell’individuo e la sua trasformazione sono offerti dall’autore con una soluzione stilistica che si inserisce armonicamente in una struttura surreale dal solido impianto, così che le rivelazioni che Isa farà, un paio di anni dopo, allo scrittore a cui incarica di raccontare la storia sull’accaduto ("scriva, ci metta ogni cosa, basta che cambi nomi, città e situazioni."), diventano una parte non solo illuminante del percorso narrativo, ma costituiscono una delle raffigurazioni piè briose e stupefacenti della storia, con un dialogo tra la donna e lo scrittore che non manca di regalarci momenti di ilarità. Il romanzo diventa così, grazie a questa parte che contiene le rivelazioni di Isa allo scrittore, un’opera ancora in corso: per un tratto, dunque, già scritta (Michele-Carolina) e per il restante - in cui si scioglierà la surreale vicenda - ancora in formazione, e si completerà via via sotto i nostri occhi, complici un chiassoso Luna Park e uno strambo cimitero. Che è il minimo che un romanzo sull’alienazione possa produrre.

Bartolomeo di Monaco


Generazioni a confronto nella letteratura italiana - copertinaPubblicato in:

Generazioni a confronto nella letteratura italiana
Bartolomeo Di Monaco
Marco Valerio Editore - 2006