RACCONTI: Gli inquilini di Barbarossa


RACCONTI: Gli inquilini di Barbarossa

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 1864  
Nota dell’autore: ieri si è svolta l’anteprima del film TV "Barbarossa". Penso che questa surreale storiella sia attinente. C.C.


Intanto chiariamo un concetto. Io non sono un vampiro, non mi diverto a succhiare il sangue agli inquilini. Sono un signore di mezza età, un tipo tranquillo, magari cocciuto, che arrotonda la pensione con l’eredità paterna. Per carità, niente di speciale: tre poderi a Gorgonzola, qualche negozio in zona Fiera e due box a Gallarate. E allora?, già mi fischiano le orecchie, hai la vecchiaia assicurata, con tutti quei soldi degli affitti!
Già, le prebende. Madonna quando viene la fine del mese! Più si avvicina la scadenza e più mi faccio le pere di valeriana. Affittare è un po’ morire, dice il proverbio, e ogni volta che passo a riscuotere rischio l’infarto. Metteteci pure le difficoltà di lingua e capirete il motivo delle mie pene. Voi non sapete, non potete nemmeno intuire: quei furbastri le inventano tutte pur di fregarmi. “Come dice? parli italiano, per piacere, non capisco”, una delle più bislacche. Ma quale italiano! Ma chi sei! Tanto per cominciare, voi l’italiano lo parlate come io l’ostrogoto. Neanche un dialetto, ecco cos’è il vostro idioma, un miscuglio cafone di rozzi fonemi. E la chiamano lingua, ‘sti terroni!
Un giorno ho perso le staffe:
“Scusate, ma non ve l’ha detto nessuno, non vi è mai punta vaghezza che a stento mettete una croce e fate due più due?” “Perché”, mi hanno rinfacciato, “tu lettere e filosofia?” “Che c’entra, io sono un signore, uno coi quarti, mica un volgare mercante di chiodi, cavoli e scarpe!”.
Che schifo. Ogni volta che passo a incassare mi viene il disturbo. Sporchi, vestiti male, tutto il giorno a trafficare in quei buchi. E poi: cupidi, scaltri, sempre pronti all’affare! ‘Lavurà danè, lavurà danè’, il loro motto.
Il mese scorso m’è venuta l’idea. E se cambiassi look? Se dipendesse dalla faccia? A volte è anche l’aspetto che ispira antipatia. Sono andato dal rigattiere e ho comprato una barba. E, visto che c’ero, anche i baffi e una bella parrucca.
“Come sto?”, ho chiesto al ferramenta.
“Ti manca solo il naso e sei un pagliaccio coi fiocchi”.
Per non parlare dello scarpaio. “Ehi, Tudesch, perché non ti compri le ciabatte? Così fai la befana, oltre babbo natale”.
Befana e Babbo Natale non me l’ha mai detto nessuno. Ho strappato la barba e mi sono avvicinato col sangue agli occhi:
“Tu mi paghi i tre mensili arretrati, e chiedi pure scusa. Hai capito, brutto pezzente? altrimenti ti becchi l’ingiuntivo!”.
Non si è scomposto. Anzi, si è messo a dispetto:
“E io chiamo l’Alberto!”
L’Alberto, il ragioniere dell’Associazione Inquilini. E’ lui che da un po’ mi guasta le notti. Un esaltato, un febbricitante tribuno che mi accusa di parassitismo, di essere un figlio di papà che campa sugli altri. Se provo appena a chiedere l’aumento, se mi azzardo a invocare l’osservanza dei patti, sapete che rispondono?: “Devo chiedere all’Alberto”. Come, che significa ‘devo chiedere all’Alberto’? Ma tu sai chi sono? Nessuno ti ha spiegato che senza di me vai a fare il marocchino? Finisci a vendere i fazzoletti in Galleria?
Stavo per mangiarmi la barba, e pure i baffi, e anche il naso, comprato apposta per compiacere ‘sti bruti. Ma vedi a che si riduce un proprietario, continuavo a dirmi, mentre risalivo le valli.
“Fatti furbo”, mi ha suggerito allora la moglie, “parlaci a quattr’occhi, con questo signor Alberto, e trova un accordo”.
“Ma non si può, è anticostituzionale! E poi: mi ci vedi, con i quarti, e le castella, e le convalli e le prammatiche sanzioni, andare a mischiarmi con uno che se la fa coi bottegai?”
Quella donna è la seconda delle mie rovine. Io non la capisco. Bella, ricca, altera, con un casato che discende da Goffredo di Buglione, e viene a propormi simili transazioni!
“Senti, amico”, mi ha risposto, tirandomi l’elastico della barba, “qui non è come ai bei tempi, quando facevi il porco comodo che ti pareva. Se non ti svegli fai la fine di mio nonno”.
“Chi, Buglione?”
“No, co…, vabbè lasciamo stare, che mi viene il lapsus mentale”.
E così sono andato.
La sede del Comitato Inquilini è al piano terra di una villetta. Il tipo vi ha fatto casa e ufficio, l’appartamento dove abita restando al piano di sopra. Appena bussato è venuto ad aprire un furetto con il sax sotto il braccio. Aveva gli occhi vispi, i capelli rasati e un ghignetto da schiaffi.
“E’ un iscritto?”, mi ha detto, dopo essersi accomodato a una scrivania e avervi deposto il sassofono.
Mo’ te lo tiro in fronte!, mi stava venendo, e gli ho lanciato un’occhiataccia.
“Come ha detto?”, ha arricciato il naso. Con un fare così arrogante che a momenti dimenticavo i quarti. Poi mi sono ricordato del lapsus di mia moglie. Ho aggiustato naso e parrucca e ho cominciato:
“Veramente sono venuto a parlare di affari. C’è l’Alberto?”
“Prego, ci sto qua io”.
“No guardi, è personale, dovrei parlare con lui”.
Dall’altra parte silenzio. Ha alzato le sopracciglia, frenando a stento uno sbuffo, poi ha mimato il gesto di turarsi il naso:
“Ohè, barba, è già molto che ti ho fatto entrare. O sputi l’osso o smammi”.
“Messere”, sono scattato in piedi, “moderi il tono, intanto. Lei sta parlando con uno coi quarti”.
“E lei con uno di Quarto”.
“Ah, sì? E quante palle?”. Sono un signore, alludevo allo stemma.
“Quanto basta”, ha ribattuto, “ma io mi riferivo a Quarto Orgiaro”.
Allibito, rimasto di sasso, anzi di sassone.
“Messere, si ritenga sfidato”, gli ho vomitato, rosso da barba a piedi.
“Ma lavati, che puzzi!” mi ha tirato il sassofono –sarà un’allusione?- che ho evitato con una finta di Busto. E sono scappato.
Mentre risalivo le valli, e le convalli, e le castella, elucubrando di ICI e l’alte tasse, in preda a una prammatica incribbiatura, ho sentito il bisogno di fermarmi. Disceso dal destriero, sono inciampato in un sasso – sarà un segno?- e (per non cadere: io, l’armatura, la barba e il naso finto) ho dovuto puntarmi ad un pioppo. “Razzisti!”, vi ho pianto, dilaniato da rabbia e umiliazione, quando…
… quando ad un tratto ho fissato il pioppo ed è spuntata l’idea:
“Vado all’UPPI, l’Unione Piccoli Proprietari, e li aggiusto!”
Ho ripercorso le valli, e le convalli, ed i passanti, e le bretelle, caracollando su quel ciuccio di destriero. Che è pure mancino, porta l’incomodo a sinistra e non monta briglie di sicurezza. Una fatica guidare quella bestia: difetta di tenuta, soffre di labirintite e tira da un lato. Pensare che me l’avevano garantito - ‘un’occasione, non ha fatto neppure il tagliando’- ma lasciamo andare. Dunque, ero allo stremo, pensavo di chiedere un passaggio quando, tra le brume, visto e non visto, è spuntato il maniero. “Finalmente”, ho sospirato, “ma domani vado dall’equilibratore”, e ho dato di sprone. Dalla parte sbagliata, dannazione, quella relativa all’incomodo, e con il seguente putiferio a catena: testacoda selvaggio, frizione a pezzi e derapata sul ponte dove il marrano, invece di puntare l’arco, si è infilato dritto nel fosso.
“Questa me la paghi, me la pagate tutti”, imprecavo all’Alberto, ma anche al rivenditore di destrieri, nell’avvitarmi per umide scale, scivolando lungo immensi corridoi, a rischio di ruzzolare per la passata a cera. Cribbio, che supplizio. Sputavo acqua, vomitavo rane, draghi e folletti mi facevano ‘maramiao!’.
In più, c’era il problema dell’armatura.
Glielo dico sempre a quella disgrazia di consorte. “Fammi trovare le inox, si consumano di meno”. Ma figurati. “Te le stiri da te. Con quello che costano le filippine!”, mi risponde con la solita alterigia. Da pigliarla a schiaffi.
E insomma. Sono arrivato ad una porta. L’ho spinta, ho fatto capolino e per la meraviglia si è abbassata la visiera. C’erano tutti! tutti gli Affittuari di Europa, seduti a un tavolo in lapislazzuli.
“Olà, barba!”, mi ha apostrofato Luitpoldo, Gran Proprietario del Palatinato, “problemi alla carrozzeria?”
Con lui ho avuto controversie legali, per via di un usucapione finito a schiaffi. Non ho ritenuto di degnare.
“Olà!”, si è aggiunto in quel mentre Lothar, Usufruttuario di Magonza. E subito gli hanno fatto eco Wittelsbach, Alto Locatore di Treviri, Cuno, Gran Comodatario del Tirolo, Sigmund e Polkosky, Nudi Possessori di Boemia e Polonia.
“Olà”, “Olè!”, “Cucù” ,“Tettè”, mi hanno via via salutato, sguainando le lame.
Lacrime, singhiozzi di commozione. Nel tumulto di sentimenti ho ingoiato un ranocchio. Poi, con gesto solenne, ho alzato la visiera: “Amici”, ho sputato il rospo dopo un rutto imperiale, “grandi e giusti proprietari, una funesta novella vi do”.
“Il blocco degli sfratti?”, sono balzati tutti in piedi.
“No!”, ho scosso il capo con forza, per scacciare l’ennesima rana dal collare.
Un silenzio, rotto da un sommesso gracidio, è calato dall’alto: una schiera di celate mi puntava in viso. Che ho chinato e poi rialzato, per fissarli tutti, a uno a uno, ed infine sbottare:
“L’han giurato, li ho visti in SUNIA, convenuti da Pero e Besnate, l’han giurato e si strinser la mano, inquilini di mille città…!!!”

Quanto in seguito accaduto non andrebbe riportato. Posteri faziosi potrebbero travisare. Ma come non riferire delle cento testate al muro di Luitpoldo, e dell’elmo sbattuto in terra, più volte calpestato e poi scagliato dalla finestra, del nobile Lotario? Come non testimoniare delle roventi chiamate di Sigmund e Polkosky ai rispettivi notai- “Fermate le donazioni in vita, c’è puzza di rogna!”, l’accorato appello. E perché tacere del pianto di Wittelsbach, cui sorte maligna e videopoker fatali hanno destinato l’affitto della casa al mare a giovani sposi in attesa di prole? No, gloria e blasone dei proprietari pretendono dica ogni cosa. E tutto riferirò, financo le amarezze.
Si adunano truppe, si apprestano bivacchi, schiere di arditi armano catapulte. E paggi, scudieri, maniscalchi, lisciano mazze, lamano stocchi, ferrano destrieri. “Olà!”, “Pepè!, “Risciò!”, “Ricchiò!”. L’aere di Legnano è scossa da grida e sproni mentre lontano, sortita da Castellanza, muove l’indegna truppa di straccioni. Dalla mia postazione sulla collina, in sella a un destriero in leasing e con l’incomodo a posto, ne osservo le sconce fila e ascolto i loro motti. “Lavurà!”, inneggia Folcacchiero da Bresso, un passo dinanzi a tutti. “Danè!”, gli fa eco da terga Guidotto. E con essi berciano, agitano contratti, Bucchione da Varallo, Castrino Castragatti, Ariberto da Lomazzo, Chiavarello da Biandrate e Azzino da Muggiò.
“Vinciamo sei a zero!”, sento Luitpoldo sussurrarmi all’orecchio.
“E così conquisteremo l’Europa!”, gli grido fiero, quando lui sgomma e si avvia alla pugna.
Faccio per imitarlo ma scoppia il solito casino. Causa freno a mano tirato mi si pianta il cavallo e termino faccia a terra.
“Ohè Barba, hai passato la lozione?”, sento Bucchione sghignazzare, mentre mi netto dallo sterco di destriero.
“Vile inquilino”, non ci vedo più dagli schizzi e mi avvento.
Infuria la pugna, si spande la puzza, il campo è un tumulto di interventi straordinari, spese di portierato e finite locazioni.
“Olà marrani, cacciate le ingiunzioni”, urla Polkosky all’indirizzo degli ufficiali giudiziari.
“E tu quanto ci dai?”, ribattono gli infidi, prima di arretrare e darsela a gambe.
Polkosky afferra la mazza e li insegue. Ha l’aria stravolta, gli occhi iniettati e l’armatura in pizzo. Nobile Polkosky! Non sai quale destino ti aspetti. Scorge il branco riparare in un fienile e si addentra. “Vi ho in pugno!”, tuona, varcata la soglia, “è una vita che mi fate fesso!”. Si gira, osserva ansimante, nessuna traccia dei vigliacchi. Prova ad insistere: “Olà, meschini, fatevi sotto!”. Ancora silenzio. Cieco di rabbia Polkosky si porta a un mucchio di stoppie e ne fa strame. Un galletto ci rimette la cresta e quant’altro. Si guarda intorno sgomento: rivoli di sudore gli solcano il viso, il fiato si fa grosso, quel giusto prende a dubitare. A un tratto, fulminante come un ictus, ode il suono di una pernacchia. “Pernacchia a me?”, freme di sdegno. “Uscite, serpenti, acciò vi tagli il gozzo”. Di nuovo, raggelanti e impreviste, le note fatali. “Ma questo è un sassofono!”, si domanda incredulo Polkosky. “E c’è pure la tromba!”, ghigna qualcuno dall’alto. Polkosky alza gli occhi e vede l’Apocalisse. Schierati sul ballatoio ci sono il furetto, l’orchestra Casadei e lui, il famigerato Alberto.
“Sei in trappola, cavaliere!”, grida l’Alberto. L’ottone della sua tromba lancia lampi sinistri.
Il nobile Polkosky, forte di sei legittime e in odore di usufrutto, non disarma. “Venderò cara la multiproprietà, losco inquilino!”, e fa le scale a quattro, la mazza bene in vista.
Pochi gradini e la piattonata di ‘Romagna mia’ lo colpisce in pieno. Sbigottito, l’un dei cigli fesso, il naso a foggia di popone, alza lo sguardo e osserva stranito. Tutto, tutto gli gira intorno, dai cosiddetti al gallo che ancheggia come una guapa di Tegucigalpa, in un vortice di trombe, urla e schiamazzi. Arretra, il prode, sente scemare le forze, stordito da lisci, paso doble e mazurke. L’Alberto, Casadei e il furetto esultano, capiscono che è fatta. “Tu sei la mia… malinconiaaa!”, infierisce Casadei e a quel punto, ahi sorte maligna!, il lume si smorza. Dopo un grido straziante il nobile Polkosky cade in ginocchio, implora alla teppa: “Yesterday! suonatemi almeno quella!” e crolla stecchito.
E’ il segnale! L’intera banda occupa un rimorchio a sei ciucci e irrompe all’aperto.
“Ma cos’è, il Mino Reitano show?”, trema Wittelsbach alla vista. Dall’alba si batte con Folcacchiero e Castrino, a colpi di ISTAT e libere pattuizioni. E adesso che la sorte arrideva avvista lo spettro dei contratti collettivi.
“Ti è piaciuta la musica? E ora stipula!”, grida Alberto dal rimorchio, in un trionfo di ragli e ottoni.
“Vuoi farmi paura?”, lo sfida Wittelsbach, cui il coraggio di locare mai fece difetto. E in un lampo infilza Castrino in ossequio al cognome.
E’ troppo. “Passami i sette e quaranta!”, abbaia Alberto al furetto. Con esito che annienta i proprietari. D’incanto le schiere di quei nobili sbiancano in viso, depongono l’armi e si danno a riflettere. “Chi mi restituirà, chi!, la casaforte di Magonza”, medita in silenzio Luitpoldo. “Le mie vigne, il fittavolo di Bressanone!”, sospira Cuno. “Il Garage, i box di Treviri!”, piange sommesso Sigmund.
“L’avete dichiarato l’affitto?”, tuona all’improvviso l’Alberto. I suoi occhi sono fornaci, le sue mani grondano sangue. Il sangue di Wittelsbach, giustiziato alla nuca con un dieci più venti a revisione zero.
“L’avete dichiarato???”, ripete stravolto il capo degli inquilini, e per poco non ruzzola dal rimorchio. Ratti lo afferrano due conduttori di Gallarate.
“Allora?”, sbraita alla piana, attonita e zittita, la birra stretta nel pugno.

***

E allora? E allora eccomi qui all’ufficio delle imposte. Costretto a un’umiliante registrazione, guardato a vista mentre dichiaro l’affitto. Niente nero, ha imposto l’Alberto nel contratto di resa. “Ti riferisci agli extracomunitari?”, ho azzardato, in un rigurgito di speranza.
“Può darsi”, ha sorriso beffardo, assestando un gran pugno sul cranio del furetto.


Carlo Capone


Pubblicato su Parliamone - 4 ottobre 2009
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