SPAZIO SCRITTURA : TENTATA VENDITA - Racconto di Claudio Bianchi


SPAZIO SCRITTURA : TENTATA VENDITA - Racconto di Claudio Bianchi

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Milano, via E. Morosini, numero 19.
E. sarebbe il nome: maiuscolo e puntato. Starà per Emilio, penso, anche se la targa non lo specifica.
Emilio Morosini è un patriota seguace di Luciano Manara, ha lottato sulle barricate nelle Cinque Giornate di Milano, poi col battaglione dei bersaglieri lombardi in Piemonte e infine nella difesa della repubblica romana. Insomma, uno che stava sempre dove c'era da menare le mani.
Adesso, in via Morosini 19, c'è l'enoteca Solci, e non mi pare si possa trovare attinenza, a meno di pensare che E. Morosini fosse un tizio che, oltre a darsele di santa ragione per difendere tutte le cause nobili, gli piacesse anche di farsi qualche bicchiere di vino.
Io questo non lo so e non lo posso dire.
Nel 1962, in via Morosini 19, c'era la torrefazione del caffè Guarany e questo invece lo ricordo benissimo.

I Guarany sono una popolazione indigena del Paraguay che vive ai bordi del fiume Paranà (se ancora esistono). Tribù attive nell'allevamento di uccelli per l'arte plumaria e la coltivazione del cotone; agricoltori e antropofagi. Chissà se coltivano pure il caffè? Forse lo fanno perché, dopo avere mangiato i loro simili, hanno bisogno di digerire.
Il nome Guarany appariva sufficientemente esotico da richiamare alla mente la pianta del caffè e anche il sudamerica, dove tutti pensano, erroneamente, che la coltivazione del caffè abbia la sua origine. Lo aveva scelto il proprietario della torrefazione: il signor Caremoli, imparentato con la famiglia che produce la pasticca Golia: un bonbon che sta a metà del guado tra caramella e medicinale per la gola.
Io mi ricordo che da bambino ne avevo acquistato per cinquecento lire in una volta sola, e me ne avevano data una borsa intera. Una sporta piena di caccole nere e rotonde che mi piacevano da impazzire. Le cinquecento lire le avevo trovate per strada e ho subito pensato di spenderle, perché se le avessi portate a mia madre, lei se le sarebbe tenute per qualche altro utilizzo.
Quando ha visto la sacca con tutte quelle caramelle mi ha dato del matto, e io le ho raccontato che avevo vinto una gara di corsa all'oratorio. A dire il vero lei non ci ha mai creduto a questa storia, e questo fatto mi ha sempre amareggiato moltissimo, perché qualche difetto ce l'ho di sicuro, ma è altrettanto certo che non racconto bugie.
Quello che posso garantire è che nel 1962, a Milano, non era difficile trovare lavoro e io l'ho trovato alla torrefazione Guarany come responsabile per la tentata vendita.
Direttore commerciale era il signor Wigley, un personaggio di origini triestine dall'aspetto autorevole, intorno ai cinquantanni, con una pancia immensa e una poltrona comprata apposta per poterlo contenere, e due baffi altrettanto notevoli. Renzino, il magazziniere, arrivava da Saronno e in azienda era una persona molto importante (e ancora oggi non so spiegarmi la ragione); Renzo, che si chiamava come l'altro, ma senza diminutivo, s'interessava dei contratti con i bar e faceva da ispettore nei nostri confronti; mentre il sottoscritto e Aldo Aldi, eravamo stati assunti per vendere il caffè Guarany nei negozi al dettaglio. Ci toccava mezza città ciascuno e il direttore aveva tirato una riga con la matita rossa, in senso verticale, sopra una carta di Milano, con i limiti e i bordi indicati esattamente. A me competevano le zone più eleganti: via Manzoni, Montenapoleone, piazza S.Babila, corso Monforte, eccetera eccetera, sino all'aeroporto Forlanini.
"A te spetta fino a qua e dall'altra parte spetta a quell'altro. Samuele fa il centro perché è un tipo più raffinato" aveva precisato Wigley, dandomi subito la prima soddisfazione, e fornendo ad ognuno di noi due il suo pezzo di cartina.

Arrivavo tutte le mattine col tram 29, scendevo davanti al cinema Colosseo e facevo a piedi un tratto di corso XXII marzo. Avanti duecento metri, avrei potuto percorrere la strada con gli occhi bendati, lasciandomi guidare dalla fragranza che arrivava dalla torrefazione che già era all'opera per la tostatura del caffè.
Alle sette del mattino, io e Aldo, stavamo davanti alla saracinesca del 19 con i nostri furgoni Fiat Coriasco, pronti a caricare la stiva con le diverse qualità di caffè che conoscevamo soltanto attraverso i nomi riportati sopra i pacchetti da kilo: un sacchetto in carta colore argento, con la scritta Guarany in rosso, contornata d'oro.
Più sotto veniva precisata la miscela: c'erano il tipo Famiglia, Economica, Superiore, Extra Speciale e poi la Miscela Bar: la qualità migliore, e ovviamente, la più cara: 100% arabica, specificava l'etichetta, con quel tanto di pomposità nella grafica che la rendeva importante. Caffè in grani da vendere sfuso agli esercenti.
Allora molte botteghe alimentari tenevano davanti al banco una vetrina divisa in scomparti, con la qualità del prodotto indicata da un biglietto scritto a penna, in bella calligrafia, appiccicato sopra ogni vaschetta. Qualche negoziante comperava solamente la miscela meno costosa e la usava per tutte le sezioni.
"Tanto la gente non capisce un tubo" affermava ridendo, orgoglioso della sua furbizia.
Sul furgone c'era anche lo spazio per le confezioni sottovuoto da cento grammi e le lattine da due etti e mezzo, col marchio Guarany in bella evidenza, e i sacchi di iuta che contenevano caffè crudo da proporre alle torrefazioni private.
Io dividevo gli scomparti con dei cartoni e col pennarello nero segnavo i tre diversi reparti: caffè sfuso, caffè confezionato e caffè crudo. C'era anche lo spazio per qualche macinino che veniva concesso in comodato ai migliori clienti, che però dovevano firmare un contratto per ritirare un tot di caffè nel giro di un anno. Pagamento in contanti.
Prima di partire per la giornata, Fiorangela, l'aiutante di Renzino, ci preparava un caffè con la miscela appena tostata, macinata a mano. Quand'era estate la ragazza portava soltanto un grembiule azzurro coi bottoni in madreperla e ci porgeva la tazzina da sopra la ribalta.
"C'hai le mutande in tinta con lo spolverino" dicevo io guardandola da sotto in su.
"Domani le metto nere col reggicalze" mi rispondeva Fiorangela.
"Qualche volta potresti anche non metterle" ribattevo a mia volta.
Mezz'ora dopo le sette arrivava il dottor Caremoli con la sua Jaguar colore nero fumo, parcheggiava sul marciapiede in attesa che noi ce ne andassimo per entrare dentro al garage/magazzino che di lì a poco avremmo lasciato libero. Era un signore alto e magro dall'aspetto rigido e distinto, aveva un ciuffo di capelli biondi che gli cadevano davanti agli occhi e che spostava continuamente con un gesto nervoso, pieno di fastidio. Ci salutava dicendo "buonciorno" con la faccia sempre seria e un leggero accento tedesco. Saliva gli scalini che portavano all'ufficio e lo avremmo rivisto soltanto il giorno dopo. Una volta però si è bloccato di colpo in mezzo alle confezioni di caffè e ha fulminato Aldo Aldi che stava sbucciando un'arancia, con uno sguardo di fuoco.
"Non si deve manciare l'arancio dentro torrefazione." Si è messo ad urlare. "Caffè è igroscopico, umidità e odore possono rovinare miscela."
Io sono sicuro di avere visto le fiamme che uscivano dalle narici del dottor Caremoli e mi sono chiesto se igroscopico fosse un'offesa nei confronti del mio collega.
Aldo ha preso l'arancia e le sue bucce, se le è infilate in tasca, ed è sparito dalla circolazione per almeno un quarto d'ora. Quando è tornato lo aspettava il signor Wigley che ha aggiunto un risciacquo alla precedente lavata di capo.
Renzo, quello senza diminutivo, ci aveva consegnato l'elenco della clientela; mediamente ci toccavano circa quaranta visite al giorno, da ripetere con frequenze diverse in rapporto al consumo di ogni cliente. C'era dentro di tutto: salumerie drogherie panifici pasticcerie caramellai vinai torrefazioni, persino qualche privato: le case della nobiltà milanese. Una volta la settimana passavo dai Visconti di Modrone e mi riceveva un signore distinto che chiamavo marchese, poi lui mi ha detto di essere il guardarobiere: "Mi chiamo Matteo. E puoi darmi del tu se ti pare."
"Piacere Samuele. Preferisco darle del lei, non vorrei apparire scortese."
"Figurati, un ragazzo tanto carino non potrà mai essere sgarbato."
Ho continuato a dargli del lei che mi sembrava più elegante.
La prima settimana del mio lavoro Renzo mi aveva accompagnato per presentarmi alla clientela e poi ho dovuto arrangiarmi da solo.
Quando ho iniziato i giri non riuscivo a restare dentro ai tempi previsti, e a metà pomeriggio avevo coperto a malapena solo i turni del mattino. Per il ritardo che avevo sono uscito pieno d'ansia dal negozio di Gaboardi (specializzato in vini e liquori) e guidavo nervoso per arrivare alla drogheria Radrizzani collocata in viale Piave. In piazza Risorgimento ho visto l'immensa statua di S.Francesco che mi tendeva le braccia, mi sono commosso di fronte a quel segnale di comprensione e non ho saputo trattenere le lacrime.
Arrivavo davanti ai negozi che avevo sempre una grande premura, scendevo di corsa, entravo come una saetta, dava un'occhiata agli scaffali, uscivo a prendere la merce, rientravo e mettevo in ordine i ripiani con tutti i prodotti sistemati al loro posto.
"Fanno settemilasettecentoquaranta." Infilavo i soldi in tasca e ripartivo come un vapore.
Anche allora era difficile trovare parcheggio e piazzavo l'auto dove capitava, più di una volta sono riuscito a bloccare il passaggio del tram o l'uscita di un passo carraio, e abbastanza spesso ho trovato la multa sotto il parabrezza; poi, col tempo, i ghisa hanno imparato a conoscermi e cercavano di essere tolleranti. Ai più simpatici gli regalavo le lattine rosse con l'apertura a strappo e il coperchio salvaroma.

"Sfuso serve qualcosa?" domandavo a quelli che avevano la vetrinetta.
"Due di Famiglia, due di Superiore, uno di Miscela Bar…" i numeri sottintendevano chili.
Piombavo sul furgone a pescare nel reparto caffè sfuso, consegnavo l'ordine, scrivevo a mano la fattura, incassavo i contanti, e ripartivo immediatamente verso il prossimo nominativo. Non mi restava il tempo neppure per fiatare.
La figlia del droghiere Beretta di via Nino Bixio mi portava sempre in cantina per vedere se c'erano riserve di prodotto e poiché era piuttosto grassoccia, faceva fatica a passare tra gli scaffali, e finiva spesso che ci trovavamo uno addosso all'altro, e lei mi spingeva di lato premendo il suo seno contro il mio petto. Un giorno, senza volerlo, ho messo le mani sulle sue grandi tette, le ho chiesto scusa ma le ho tenute dov'erano. Mi ha guardato fisso fisso.
"Se lo racconto a mio padre ti costringe a sposarmi. Oppure non gli dico niente, però non ti pago il caffè." Non aveva finito la frase che già avevo tolto le mani.

Dopo pochi mesi avevo imparato a conoscere il giro alla perfezione: sapevo le vie meno trafficate, prendevo scorciatoie sconosciute anche ai milanesi, avevo confidenza con tutti i clienti e di ognuno sapevo pregi e difetti, mi davano fiducia e mi muovevo dentro ai negozi in piena libertà e assoluta autonomia. "Vedi tu quello che mi serve" mi dicevano, e io li servivo con correttezza e precisione, senza mai approfittarne.
Una volta la settimana concludevo il percorso in via Lazzaro Palazzi, dov'era il negozio alimentare di Franco Di Stasi, con il quale mi ero fatto amico. Franco era salito dalla Puglia con tutta la tribù: padre madre fratelli sorelle e parenti fino al settimo grado, l'olio buono e le orecchiette. Verso l'una chiudeva la saracinesca e salivamo in casa sua per mangiare e bere. Preparavano una tavolata che, se andava male, ci stavano almeno una ventina di persone e certe volte superava anche quaranta.
E siccome ero l'ospite mi rimpinzavano come un maiale e mi offrivano anche un letto per riposare: "tanto fino alle quattro non si apre", mi diceva suo padre Tonio, con l'accento strascicato della periferia barese, e non riuscivo a trasmettergli che io non avevo bottega e facevo un altro mestiere.
Il circuito giornaliero, che all'inizio mi aveva fatto piangere, adesso, qualche volta, lo terminavo in mezza giornata e siccome non potevo rientrare in torrefazione prima delle sei, avevo scoperto una zona dove potevo restarmene in pace a trascorrere il pomeriggio leggendo libri fumetti e giornaletti pornografici, senza che Renzo mi potesse scovare quando faceva i suoi giri di controllo.

Era un quartiere dalle parti dell'Università Bocconi, tra Castelbarco e Giambologna, un intrico di stradine con piccole villette chiuse da steccati e qualche raro condominio che non superava i tre piani; pini faggi e aceri frondosi, rendevano l'ambiente un luogo ideale per sostare tranquilli come fosse campagna.
Il giugno del '62 era particolarmente caldo e così, un pomeriggio, sono sceso dall'auto per mettermi seduto sopra una panchina che stava sul marciapiede di via Caimi. Dal giardino della villetta che avevo alle mie spalle sentivo provenire rumori ed è stato normale di girarmi a guardare, d'improvviso mi è parso di vedere una ragazza piuttosto svestita che si muoveva al di là della siepe. Mi sono alzato in piedi e ho cercato di osservare meglio facendo finta di accendere una sigaretta.
"Mi abbronzo in costume dentro al mio giardino" ho sentito dire.
"Parla con me?"
"Sì, parlo con te"
Poiché mi sembrava un invito, mi sono affacciato al cancello, ed effettivamente una bella signorina, dalla pelle chiara, appena ambrata dal sole, stava sopra una sedia a sdraio con un indosso un costume due pezzi.
"Contento di vedermi?"
"Sentivo dei rumori…"
"Il cancello è aperto e se ti va puoi pure entrare"
"Però io non ho il costume"
E lei si è messa a ridere rivelando due file di denti bianchissimi.
"È diverso vedere una ragazza in bikini al centro di Milano"
"Diverso da che cosa?"
"Dal vederla al mare"
Insomma abbiamo rotto il ghiaccio e ci siamo messi a chiacchierare. E le ho detto che mi chiamavo Samuele, che non avevo ancora ventanni, che avevo smesso di studiare; le ho spiegato che lavoravo per la torrefazione Guarany e qual era il mio mestiere, e poi le ho regalato 6 lattine del caffè migliore. E lei mi ha detto che viveva sola perché suo marito viaggiava molto e adesso stava in Inghilterra e sarebbe tornato sabato.
"Ma poi lunedì, purtroppo, riparte ancora. Mi chiamo Donatella, piacere."
"Piacere mio" le ho risposto "Donatella è un nome promettente."
Da quella volta ho smesso di andare dal mio amico Franco Di Stasi e facevo di tutto per terminare il percorso in via Caimi.
Donatella risultava sempre più simpatica e nelle settimane successive mi sono portato anche il costume da bagno e lei mi ha procurato un'altra sdraio che mi potevo sedere di fianco ad abbronzarmi con lei.
Poi una volta ci siamo messi a giocare a pallavolo, come fossimo sulla spiaggia di Rimini, e siccome mi tuffavo per farle vedere quanto ero agile, è finita che quando è stata ora di rientrare ero tutto sporco di terra.
"Non puoi andartene così conciato. Entra in casa a farti una doccia" mi ha proposto Donatella. E io l'ho presa in parola, ma si sa come vanno a finire certe situazioni, anche perché Donatella ha voluto pure lei farsi la doccia.
"Mi sento tutta sudata, e puzzo come una capra." Ha detto la ragazza annusandosi sotto le ascelle.
Insomma quella volta erano le nove di sera e ancora stavo dentro la villetta di via Caimi e non m'ero accorto di come volavano le ore.
"Oddio!" Ho urlato pieno di spavento. "In torrefazione mi staranno cercando!" E poi mi sono agitato come quando stavo in ritardo nel fare il giro della clientela.
Ho smesso di fare la doccia, mi sono rivestito e sono corso fuori che ancora abbottonavo i pantaloni, e Donatella mi ha accompagnato fino al cancello.
Renzo, quello senza diminutivo, stava davanti alla Fiat Coriasco ad aspettarmi, mi ha guardato ed ha scrollato la testa.
Ho lanciato a Donatella uno sguardo che aveva la stessa intensità di Humphrey Bogart verso Ingrid Bergman all'aeroporto di Casablanca, e col medesimo stile le ho girato le spalle.
"Salta in macchina" mi ha detto Renzo senza nessuna espressione nella voce. "Torniamo in via Morosini, io ti seguo con la mia vettura."
Prima che salissi sul furgone mi ha appoggiato una mano sulla spalla: "Raccontiamo che hai avuto un guasto e sei rimasto fermo dal meccanico." E dicendolo mi ha schiacciato l'occhio.
"Sono stato ragazzo anch'io" ha continuato, e dentro quella frase mi è parso di sentire un filo di rammarico.

A fine anno la mia zona aveva raddoppiato le vendite. Avevo aumentato le quantità per ogni tipo di caffè proposto: sfuso, confezionato e crudo, ed era cresciuto anche il parco clienti.
Tra i privati si era inserita una signora di via Caimi che telefonava ogni quindici giorni e io passavo da lei nel pomeriggio, effettuavo il mio servizio e tornavo in torrefazione sempre un po' tardi.
A Natale il signor Wigley mi ha regalato un orologio da polso perché imparassi ad essere più puntuale.



Claudio Bianchi


Racconto finalista al Concorso "CAFFÈ LETTERARIO MOAK" 2006



Claudio Bianchi - Icaro nella menteClaudio Bianchi ha pubblicato:
ICARO NELLA MENTE
PeQuod, 2005

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