SPAZIO SCRITTURA: Proust era un neuroscienziato - di Paola Cerana


SPAZIO SCRITTURA: Proust era un neuroscienziato - di Paola Cerana

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PROUST ERA UN NEUROSCIENZIATO

“Un poeta persiano ha paragonato l’Universo ad un antico manoscritto del quale la prima e l’ultima pagina sono andate perdute. E’ solo un’immagine poetica, eppure alla ricerca di quelle pagine si sono avventurate, nei secoli, tre intrepide carovane: i filosofi, gli scienziati e i poeti. Solo i poeti riusciranno a trovarle, un giorno, ma non saranno creduti!”

(da “Sul treno di Babele, sognando Broadway” di Vittorio Salvati)

Questa bella riflessione mi rimanda ad un’altra ricerca, La ricerca del tempo perduto di Proust. Ogni volta che mi calo nella lettura dei suoi romanzi ne riemergo rigenerata, vibrante di emozioni e di stimoli. Non mi sono mai resa conto esattamente di che cosa mi affascini tanto, se la prosa ipnotica, l’atmosfera romantica, i personaggi nostalgici o l’ambiente ricamato della Belle Epoque parigina che si respira in tutta la Recherche. Ma ho sempre trovato una straordinaria modernità nei pensieri di Proust, un’attualità che trascende dal suo tempo perché proviene e si allaccia direttamente a quella parte dell’essere umano che età non ha: l’anima.
Solo pochi giorni fa ho scoperto un libro che mi ha illuminata e ha confortato quelle che erano state finora solamente vaghe sensazioni, dando un senso anche razionale al mio stravagante innamoramento per questo romanziere. Si tratta di un saggio pubblicato l’anno scorso, scritto da un giovane ricercatore americano, Jonah Lehrer, e s’intitola “Proust era un neuroscienziato”. Finalmente, anche nell’ambiente scientifico, apparentemente lontano dalla poesia, dalla letteratura e dall’arte, viene riconosciuta la grande intuizione di Proust che, involontariamente, aveva anticipato, con le sue riflessioni oziose e contemplative, alcuni principi fondamentali delle moderne neuroscienze.
Durante la sua breve vita, Proust è stato quasi sempre confinato a letto, condannato dall’asma e dall’autocommiserazione che la sua cagionevole salute gli provocava. Eppure non si è mai sentito pronto a morire. Il suo mondo era tutto interiore e lui capiva che l’unico modo per vivere – e per diventare immortale - era scrivere e trasformare in arte la sola cosa che possedeva: la memoria. La nostalgia divenne la sua energia, il suo balsamo, la sua salvezza, perché se la nostra vita è vagabonda, la nostra memoria è sedentaria. Così Proust, chiuso nel silenzio della sua camera, impossibilitato ad andare incontro al suo futuro, cominciò un lungo viaggio a ritroso, dentro di sé, alla ricerca dei suoi ricordi più lontani. Ma si mise anche in ascolto del suo cervello sentimentale, tanto da intuirne i meccanismi invisibili, scrivendo pagine e pagine, fino a rendere il suo passato un capolavoro.
Leggendo la Recherche a me pare di sentire la sua voce. Mi sento trasportata in quella camera semibuia: immagino il raggio di sole che filtra attraverso le tende schiuse, sento il fischio lontano del treno, intravedo i biancospini in fiore accarezzati dal vento, percepisco la consistenza del tovagliolo ricamato in mano, brucio della stessa gelosia per un amante sfuggente e avverto l’angosciosa attesa di un bacio che non arriverà mai. Quella che potrebbe essere per molti lettori una noia mortale, a me pare estasi pura.
Ma al di là della piacevolezza che questa lettura a me dà, si nasconde un’intuizione folgorante dietro alle meditazioni di Proust e sta tutta racchiusa dentro una madeleine. Quel dolcetto burroso a forma di conchiglia imbevuto nel tè non è semplicemente un pezzetto di squisita materia ma è l’elemento rivelatore che scatena l’illuminazione dello scrittore, mostrandogli finalmente quello che stava cercando: se stesso.
“Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, IO ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. E’ tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me.”
Il passato di Proust irrompe nel suo presente in maniera del tutto inattesa, senza alcuna apparente logica, semplicemente attraverso alcune briciole immerse in una tazza di tè fumante. Da quell’istante rinasce il piccolo Marcel, che a Combray mangiava madeleine a volontà e che non vedeva l’ora di scappar via da quella cittadina di provincia.
La grande intuizione di Proust fu, dunque, che l’olfatto e il gusto hanno un ruolo fondamentale per la memoria e per il recupero dei ricordi. Nel 1911, l’anno della madeleine appunto, gli scienziati non avevano ancora idea di come i nostri sensi comunicassero all’interno del cervello. Oggi le neuroscienze sanno che Proust aveva ragione. I sensi dell’olfatto e del gusto sono quelli più “sentimentali”, più soggettivi e meno trasmissibili. Non è facile, infatti, descrivere a qualcun altro il profumo di gelsomino o l’aroma del caffè, perché si tratta di percezioni intime e difficilmente condivisibili. Questo perché gusto e olfatto sono gli unici due sensi direttamente collegati all’ippocampo, che guarda caso, è il centro della memoria a lungo termine. Il loro marchio è perciò indelebile. Tutti gli altri sensi, invece, vengono elaborati dal talamo, che è la fonte del linguaggio, e le loro tracce sono più effimere e meno capaci di richiamare il passato.
Proust intuì questa relazione tra sensi e cervello e sfruttò il sapore del dolce e il profumo del tè per ritornare alla sua infanzia. Guardare il pasticcino non era sufficiente, tanto che lo scrittore arrivò a maledire il senso della vista perché gli sembrava occultasse i ricordi. Per fortuna, dopo quarantotto pagine dedicate allo stato mentale del narratore, Proust decise di infilare il dolce in bocca, cominciando così il percorso rivelatore dentro di sé. In pratica, quando la madeleine si scioglie sulla lingua, accende dei neuroni che, sulla scia del gusto e dell’olfatto, comunicano attraverso la forza delle sinapsi con altri neuroni, quelli che codificano la città di Combray e il viso di zia Léonie.
Ma Proust andò oltre nelle sue intuizioni profetiche, rendendosi conto che i ricordi non erano fotografie immutabili, bensì cambiavano e si trasformavano ogni volta che venivano richiamati alla memoria. Così tendeva a ricordare certi episodi in maniera più bella e colorata di quanto in realtà non fossero stati ma ne era consapevole ed è così che ha trasformato il suo passato in un’epica dell’amore, della gelosia e dei turbamenti del suo tempo.
Oggi i neuroscienziati sanno perché i ricordi cambiano nel tempo. Lo sanno sulla base di esperimenti e studi minuziosi operati sulle cellule cerebrali delle rane e sui collegamenti sinaptici delle lumache di mare. Meno poetico, certamente, ma questa è la via scientifica verso la verità. Dalla madeleine imbevuta nel tè si è arrivati alla scoperta di un prione che renderebbe i nostri ricordi malleabili, plastici, anziché immobili, e il nostro passato sarebbe, di conseguenza, eterno ed effimero al tempo stesso. Ma anche la scienza, come l’arte, è affascinante perché, se pur con altri strumenti, è animata dalla stessa propensione ad essere creativa, a correggersi, osando affrontare ineluttabilmente nuove rotte. Lo scienziato con i suoi esperimenti fa esattamente come Proust, che riscriveva le sue pagine un’infinità di volte, annotando, cancellando, correggendo a seconda di come un ricordo gli sobbalzava nella mente, adeguandosi alla realtà che via via lo circondava. In fin dei conti, i ricordi non rappresentano direttamente la realtà ma sono piuttosto copie imperfette, fotocopie di fotocopie di fotografie originali. I nostri ricordi non sono come la fantasia, sono la fantasia!
L’ultima sera della sua vita, mentre se ne stava a letto svuotato di ogni energia, Proust chiamò Celeste, la sua affezionata governante perché voleva dettarle qualcosa. Sentiva l’esigenza di correggere una parte del suo romanzo, quella in cui descriveva la lenta agonia di uno dei suoi personaggi. Voleva riscrivere quelle righe, perché ora – in quel preciso istante – lui sapeva esattamente cosa significasse morire.
Sono certa che in quel momento Proust aveva scoperto il segreto di quelle due pagine mancanti della storia dell’Universo!

Paola Cerana



Paola Cerana, nata a Busto Arsizio, è laureata in Scienze Politiche all'Università Cattolica di Milano. Ha condotto indagini sperimentali sul problem solving e ha collaborato per alcuni anni con l'IRRSAE. Ha scritto "L'intuizione visiva. Utilizzare le immagini per analizzare i problemi" (Franco Angeli). Con Vittorio Salvati ha scritto "Il Diario proibito di Adamo ed Eva" ne "Il ribelle letterario" (Edizioni Associate) e ha da poco pubblicato "VIaggi incantati. Un'anima 'in penna' a spasso nel mondo per assaporarlo" (Ed. Associate). E' curiosa del mondo e delle umane passioni, di cui ama scrivere su alcuni siti letterari in rete.




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