I Napoletani -


I Napoletani - "Generoso Picone" (Laterza)

Pubblicato da: Admin  /  Letture: 2302  
Il primo pregio di questo libro risiede nella copertina, uno splendido disegno di Enrico Tatafiore, che richiama il lettore verso lo scaffale che ospita quest’opera: un Vesuvio giallo che erutta lava rossa in un cielo nero, con due pesci sospesi in aria.
Naturalmente è solo il primo pregio di un saggio che cerca di rispondere ad una domanda che ha dell’impossibile: chi sono i napoletani?
Alla fine le idee non sono certamente più chiare, ma gli spunti che il libro offre sono tantissimi, tutti fecondi ed interessantissimi.
Mi piace riportare, a questo proposito, una frase che Picone pone nell’introduzione, e che trae da “L’armonia perduta” di Raffaele La Capria :”i napoletani non sarebbero quello che sono se in questo gioco autolesionistico-esibizionistico della 'napoletanità' non sprecasserro qualità di intelligenza, di spirito, di senso dell’umorismo (..) Nella maggior parte dei casi risultano 'simpatici', e fanno di tutto, come ho detto, per esserlo. Ma perché devono essere a tutti i costi 'simpatici'?”
Ebbene, questa domanda, dolente, dolorosa, sulfurea, coglie secondo me già una parte importante del significato dell’essere napoletano: spesso, molto spesso, è un cliche che ci viene imposto dall’esterno e che inconsciamente assumiamo per assecondare ciò che si aspetta l’interlocutore.

Il primo capitolo del libro è dedicato a quell’epopea eroica, utopistica e sanguinaria (per il suo epilogo) che è stata la Repubblica Partenopea, la cui fine, con l’uccisione e la diaspora della parte illuminata della città, è stata vista come causa di parte dell’arretratezza di cui Napoli ancora oggi soffre.
Alla Repubblica succedette un monarchia guidata da regnanti inetti e ignoranti, a cui un’iconografia anche recente ha riconosciuto pregi che spesso sono assolutamente immeritati.
A onor del vero, anche episodi misconosciuti di valore vengono sottolineati, riguardanti l’esercito borbonico, il famigerato “esercito di Franceschiello”, che a Gaeta scrisse pagine di eroismo.
Comunque, la figura dei regnanti borbonici esce malconcia dall’analisi e dalle fonti di Picone: riconoscendone i primati in alcuni campi dell’industria, non nasconde la realtà politica, sociale e sanitaria. Addirittura Ferdinando II si vantava dell’isolamento a cui l’Europa lo aveva costretto, fino al punto che Francia e Inghilterra ritirarono i propri Ambasciatori.

Passando attraverso la nascita della canzone napoletana, la Serao, Scarfoglio, Marinetti, Croce, si arriva a Guglielmo Giannini, Totò ed Achille Lauro.
Il laurismo è stata un’altra epoca infelice ed emblematica per Napoli, fenomeno dovuto alla saldatura tra sottoproletariato disperato (erede dei lazzari) e borghesia affaristica. La storica Gabriella Gribaudi scrisse che “Napoli fu abbandonata e si abbandonò a Lauro. Fu la sua definitiva emarginazione”.
Alcuni tratti del profilo laurino appaiono sovrapponibili al berlusconismo: il sacrificarsi, da ricco, per il bene degli altri, lavorare indefessamente, comprare la squadra di calcio, giudicare chi a 70 anni non ha nulla (De Gasperi, nel caso del Comandante) un fallito, slogan come “poca politica, poche chiacchiere, molti fatti”.
Per Napoli inizò il periodo che la Ortese definì “il silenzio della ragione”. Rea affermò che Lauro “sostituiva i re in una delle loro funzioni storiche, l’elemosina”. Compagnone chiosava:“Era un plebeo ricco e ben provveduto, bravissimo a rappresentare il peggio di Napoli”. Compagna :“Demagogo, plebeo e levantino”.

I nomi degli scrittori sopra citati facevano parte dei “ragazzi di Montedidio”, una pagina bellissima della storia culturale della nostra città, anch’essa conclusasi con un esodo, alla volta di Milano o Roma. Ai succitati bisogna anche aggiungere Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson, Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Raffaele La Capria.
Dopo l’esodo, Annamaria Ortese tornò una sola volta a Napoli in 40 anni. Fu incolpata, dopo il suo “il mare non bagna Napoli”, di eccessiva crudeltà nei confronti della città: quando lo lessi, il suo romanzo ebbe per me l’effetto di un pugno nello stomaco: all’inizio rimasi intontito, ed ebbi anch’io una reazione di fastidio verso la Ortese, ma poi, dopo averlo metabolizzato, dovetti convenire che non aveva torto: duro, ma non falso.
L’esodo si compì con la morte della rivista Sud, fondata da Prunas e che ebbe vasta eco nella sua breve vita.
Ghirelli andò via “perché semplicemente (…) messo per anni e anni con le spalle al muro”; La Capria “ci sentivamo isolati, abbandonati a noi stessi, ed è stato sempre questo l’atteggiamento di una città che ha in sospetto ogni iniziativa intellettuale”
Picone traccia poi un ritratto accorato e dolente di Renato Caccioppoli, genio della matematica, non sempre compreso e talvolta ostacolato dai suoi colleghi.
Il capitolo finale del libro è dedicato agli scugnizzi ed ai tentativi fatti da nobili, preti, comunisti o laici per la loro emancipazione. Si passa dalla nave-asilo per scugnizzi a don Mario Borelli, fondatore della Casa dello scugnizzo, fino alla Mensa per Bambini Proletari ed ai Maestri di Strada, attivi ai giorni nostri.
La tristezza di questo epilogo è che si spinge fino ai giorni nostri: la Mensa per Bambini Proletari agiva appena 30 anni fa, nel 1975, periodo in cui a Napoli c’erano ancora persone, tante, che avevano difficoltà ad unire il pranzo con la cena.
Situazione che si sposa e continua con l’alto tasso di evasione scolastica, ancora oggi triste primato della nostra città.
E la fine di questi ragazzi, soli, con un livello di scolarità prossimo allo zero, è la strada, la delinquenza, la kamorra. Enzo Granata, impiegato comunale che guida il coordinamento degli abitanti delle Vele di Scampia, afferma che “i bambini che ho visto nascere, a quindici anni mi terrorizzano”.
Parole dure, specchio di una realtà ancora più dura, che qualcuno vorrebbe nascondere per un malcompreso senso dell’onore. Domenico Rea afferma che dire la verità su Napoli significa rompere un tacito patto”quando qualcuno ha tentato la via della verità, per primi i napoletani si sono ribellati, e non vi si sono riconosciuti; mentre credono di ritrovarsi nelle canzonette”.
L’ambiente culturale partenopeo è sempre fecondo, ed infatti si spazia poi da Erri De Luca a Montesano, dalla Cilento a Peppe Lanzetta, da Franchini alla Parrella: tanti bravi scrittori. Napoletani?
Un momento, Fabrizia Ramondino ha pubblicato nel 1999 un “Manifesto contro la definzione di “Scrittori napoletani”:”Se uno scrittore viene a trarre dalla sua regione un significato più largo, vuol dire che è riuscito nella sua arte. In caso contrario rimane uno scrittore locale”.
Ed infatti Erri de Luca afferma che lui è da Napoli, non di Napoli, perché “Napoli è la mia fortuna di origine. Perciò sono da Napoli. Sento meno il genitivo d’essere di Napoli”.

Insomma, i due secoli di storia raccontati da Generoso Picone sono uno spunto non per cercare di capire chi sono i napoletani, ma rappresentano una traccia da seguire (e ce ne sono a decine, in questo libro) per approfondire questo argomento affascinante e misterioso, antico e moderno, generoso e pavido, eroico e vile, di cui anche noi facciamo parte.

Inviata da giaguaro







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Commenti

giam
11/01/2011
Replica a questo
Ho scritto un post su questo libro nel nostro blog collettivo:
http://gruppo_lettura.blog.tiscali.it/2011/01/08/i-napoletani-di-g-picone/

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